Il documentario, prodotto nel 2012 ma tuttora in viaggio per sale e festival di tutto il mondo, non è l'opera prima ma certo la più rischiosa che Nima Sarvestani abbia mai girato. Nato nel 1958 in Iran, dove ha svolto per anni la professione di giornalista, il regista ha deciso di trasferirsi in Svezia nell'84. Nel Paese scandinavo, tre anni dopo ha fondato una casa produttrice di film di testimonianza e denuncia. Come No Burqas Behind Bars, che ci permette di entrare – ed è caso senza precedenti – in un carcere afghano di una zona rurale a forte influenza talebana
In locandina, una donna di spalle, vestita di un rosso splendente, è rivolta verso un cancello chiuso. Il suo volto non si vede: è assente, o obbligato a nascondersi. Ma quello è il cancello di una prigione in cui la donna sta entrando o da cui sta uscendo? Lei prova paura o gioia e sollievo? Domande legittime, però mal poste, nel contesto dell'Afghanistan post-talebano. Le donne afghane non vogliono entrare in prigione, ma hanno paura a uscirne. Niente sembra cambiato, almeno in certe enclaves.
Per un responsabile della prigione intervistato da Sarvestani, è colpa dell'ignoranza. Ma anche di nuove leggi scritte solo sulla carta e di consuetudini che perdurano. Per cui
40 donne e 35 bambini si trovano a Takhar nel periodo in cui Sarvestani visita la prigione e gira il suo documentario. La vita scorre in una surreale normalità. Le donne indossano abiti colorati, si truccano e mostrano il volto. Cantano e ricamano, ridono e piangono, litigano e si aiutano. A chi non ha mai preso coscienza della propria femminilità, viene insegnato a mettersi lo smalto. E sono grida di gioia. Soprusi e furti ci appaiono incidenti scontati. Litigi e incomprensioni portano a conflitti che sembrano naturali in quella società parallela che è il carcere, dove le donne possono finalmente esprimersi e mostrarsi senza essere picchiate.
No Burqas Behind Bars ci mostra la vita delle prigioniere, i loro pensieri, le loro emozioni, le loro speranze e la loro bellezza. L'occhio della telecamera indaga i piccoli spazi in cui muovono, i buchi attraverso cui inviano messaggi, il cortile in cui si ritrovano e svolgono le attività quotidiane che ogni donna compie. Scene corali e confessioni intime si alternano. Ma a colpire è il colore che le donne indossano o che le circonda. Altrimenti sono pareti grigi e polvere. E, a refrain e memento, il filo spinato alto sui muri contro un cielo azzurro.
Sara
Occorre dunque chiedersi perché Sara confessa che la prigione è l'unico luogo in cui si sente libera? O perché l'uscita dal carcere non è festeggiato in allegria? Perché la donna che sta per andarsene piange, triste come le sue compagne che la incoraggiano? «Vai e vivi come un leone», viene detto a Sara, che, indossato il suo burqa scuro, si ritrova sola, su una strada polverosa, lungo la quale lentamente si incammina.Forse allora la donna che compare sulla locandina non sta uscendo dal carcere, né desidera ardentemente uscirne. È il simbolo di una donna afghana costretta all'immobilità. (già qui: http://www.sulromanzo.it/video/docufilm-no-burqas-behind-bars-di-nima-sarvestani)