"Paradosso è la parola più adeguata per descrivere la situazione del documentario italiano", spiega Marco Bertozzi, documentarista, docente universitario, autore della Storia del documentario italiano che per Rai Storia quest'anno ha realizzato una serie sull'argomento. "Negli anni si è moltiplicata la produzione, grazie alla disponibilità delle nuove tecnologie. Si va ormai dai 400 ai 700 documentari all'anno, un'enormità rispetto alla possibilità del mercato professionale di recepire queste opere. A parte grandi broadcaster come Rai e Mediaset, che però guardano maggiormente ai documentari naturalistici, non c'è quasi mai una situazione che consenta al documentarista di vivere realizzando cinema di questo tipo".
Fra i 715 documentari dello scorso anno possono essere stati censiti anche produzioni minori se non amatoriali, ma in ogni caso la cifra è alta e in crescita: 433 nel 2009, 570 nel 2010, 706 nel 2011. Anche ammettendo che questi numeri possano essere ridimensionati, il fenomeno è ampio. "Eppure, il paradosso è anche che il documentario sembra ormai la parte più dinamica del cinema italiano contemporaneo, la più sperimentale", continua Bertozzi. Quest'anno per la prima volta la mostra di Venezia avrà un documentario italiano selezionato per il concorso principale, Sacro GRA di Gianfranco Rosi, l'autore fra gli altri di Below sea level. Ma in Italia abbiamo tanti altri autori, da Stefano Savona ad Alina Marazzi, per esempio, che hanno realizzato grandi documentari.
"E' un settore di grande vitalità, ma con film completamente sconosciuti", dice Nicola Giuliano, produttore di Indigo Film. "Il prodotto interessa poco e a pochi, le tv non acquistano o acquistano a prezzi risibili. Rosi è un genio, ha fatto il film lavorando un anno e mezzo da solo, eppure qui è sconosciuto, mentre in Francia è qualcuno. Dal punto di vista imprenditoriale produrre documentari in Italia è un suicidio".
Dove va quindi la produzione italiana? Sono pochissimi i titoli con un distributore e nella maggior parte dei casi si possono vedere unicamente nei festival dedicati. Spesso i film italiani vincono infatti festival internazionali e la speranza è che grazie a questi premi possano avere attenzione successivamente da parte dei media. "Ma naturalmente non si può lavorare solo per i festival", dice Bertozzi. "Il documentario televisivo oggi è spesso vicino all'idea di reportage, in format che tendono a privilegiare lo sguardo sociologico e a ribadire aspetti già noti dall'opinione pubblica. Eppure ricordo che il magazine Tv7, nella Rai degli anni 60, produsse un documentario di Pasolini, Appunti per un film sull'India, un film poetico e spettacolare, e oggi questo non accadrebbe".
I documentari italiani, insomma, sono film che raccontano il mondo, spesso le persone e meno l'ambiente o gli animali, in maniera poetica, sperimentale e comunque distante dal tipo di documentario che oggi è trasmesso in televisione, nonostante il proliferare di spazi e canali. E anche la lunghezza è spesso differente da quella a cui il grande pubblico è abituato, perché non è detto che un documentario sia un cortometraggio e non è più la palestra per i registi che vogliono fare il cosiddetto vero cinema, quello di finzione.
Spesso si punta alle vendite all'estero. In Svizzera ogni anno sono programmati nei cinema una quindicina di documentari lungometraggi. Una delle due produzioni di quest'anno di Indigo, Slow food story di Stefano Sardo, andrà nei cinema in Germania, dopo essere stato in alcune sale italiane ricavando 16 mila euro, per una produzione costata 200 mila.
Molti documentaristi italiani, inoltre, hanno fondato case di produzione all'estero e da lì realizzano film sull'Italia. In Francia, per esempio, dove le stesse tv o il centro nazionale di cinematografia concedono finanziamenti per i cosiddetti "documentari di creazione". Ma in generale sono diversi i paesi europei in cui si concedono finanziamenti e gli stessi broadcaster pubblici investono sui progetti.
Andrea Secchi per "Italia Oggi"