[Documentario] VAJONT, tanta terra, tanta acqua – regia di Vittorio Vespucci,direttore di produzione Monica Nitti

Creato il 02 novembre 2013 da Queenseptienna @queenseptienna

Titolo: VAJONT, tanta terra, tanta acqua
regia di: Vittorio Vespucci
direttore di produzione: Monica Nitti
Misiche di: Stefano Gagliarducci
Voce narrante di:
Cinzia Laterza
Fotografie d’epoca di:
Lorenzo Manigrasso
Anno:
2013
Durata:
46′
Trailer: QUI 


Contenuto: (dal sito: http://www.vittoriovespucci.it/vajont
Nel documentario Vajont – Tanta terra, tanta acqua si traccia un quadro della Tragedia del Vajont. Si narra in maniera discorsiva e a più voci delle cause, delle responsabilità e della prevedibilità del disastro, dell’impatto mediatico che lo stesso ha avuto all’epoca e di come la ricostruzione abbia provocato sconvolgimenti urbanistici, economici e sociali nei territori interessati. Si parla del dopo Vajont, delle speculazioni che ci sono state sulla tragedia e si dà voce ai sopravvissuti, i veri protagonisti, quelli che il Disastro del Vajont lo hanno subito e che, ancora oggi, lanciano un grido di dolore per le violenze perpetrate ai loro danni e per l’indifferenza che per anni ha avvolto la loro vicenda. Il Vajont non è solo tanta terra, tanta acqua. Nel documentario vengono analizzati gli eventi tramite una serie di interviste a esperti, studiosi, testimoni e sopravvissuti: Lorenzo Manigrasso (giornalista, fotocine operatore del 2° Reparto Celere della Pubblica Sicurezza di Padova); Toni Sirena (giornalista e scrittore, figlio della giornalista Tina Merlin de L’Unità); Adriana Lotto (Presidente dell’Associazione culturale Tina Merlin); Ivan Pollazzon (esperto, informatore della Memoria); Tiziano dal Farra (ricercatore, studioso del Vajont); Micaela Coletti e Gino Mazzorana (presidente e vicepresidente del Comitato per i Sopravvissuti del Vajont, entrambi sopravvissuti alla tragedia).

A cinquant’anni di distanza, domenica 13 ottobre, presso la Libreria Lovat di Villorba, è stato proiettato un documentario che ha inteso ricordare le vittime di Longarone e di altri paesi coinvolti nel disastro, raccogliendo le testimonianze dei superstiti. Ha raccontato quanto è avvenuto allora e di come sia stato gestito il dopo Vajont. L’evento in sé è apparso e appare tutt’oggi come qualcosa di inaudito; insuperabile lo shock e il senso di smarrimento profondo di chi si è trovato davanti a binari ferroviari intrecciati tra loro, a pozze d’acqua da cui a poco a poco affioravano i cadaveri, senza che vi fosse nessuna traccia del paese, delle strade, delle case:

«Longarone dov’è? Ieri sera era qui!» 

Scopo dell’incontro non è stato solo commemorare, ma raccontare una storia che gli Italiani non conoscono e forse non conosceranno mai a sufficienza. Troppo spesso il Vajont è ritenuto un luogo della memoria, un modo come un altro di relegarlo in uno spazio angusto, di operare una velata rimozione come mille cose di cui non si discute più.

La stampa inizialmente parlava di disastro naturale. Si fanno nomi di Montanelli, Giorgio Bocca, che l’11 ottobre 1963 tra le pagine del Giorno scriveva:

Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c’erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa, nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è fatto dalla natura che non è né buona, né cattiva, ma indifferente. [Paolini - Vacis, p.9]

Dino Buzzati, nel Corriere della Sera nello stesso giorno, ricorreva a una metafora come questa:

Un sasso è caduto in un bicchiere pieno d’acqua e l’acqua è uscita sulla tovaglia. Tutto qua. Solo che il sasso era grande come una montagna, il bicchiere alto centinaia di metri, e giù sulla tovaglia stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. E non è che si sia rotto il bicchiere; non si può dar della bestia a chi l’ha costruito perché il bicchiere era fatto bene, a regola d’arte… [Paolini – Vacis p.9]

Per non parlare di taluni che scrivevano o dicevano: «Quanto avvenuto al Vajont è stato un misterioso Disegno d’Amore». 

Altri ancora disquisivano di una fatalità, di un tributo al progresso. E si sa, contro le catastrofi naturali c’è solo da rassegnarsi. Eppure già prima dell’evento qualcuno denunciava, calcolava, verificava, relazionava sullo stato dei luoghi, sui rischi che nessuno sembrava voler cogliere. Sono rimasti gli articoli e l’impegno di Tina Merlin che già aveva messo il dito nella piaga. All’improvviso ci si è resi conto della presenza di una frattura profonda nel monte Toc, a forma di “emme”, di origine preistorica, a contraddire la scarsità di rischi di eventi franosi. Agli avvertimenti hanno prevalso interessi di parte. Non ci si poteva fermare. Erano gli anni Sessanta, quelli del Boom, di un treno in corsa sul quale salire assolutamente. La diga serviva per incanalare l’acqua per produrre energia elettrica tutto l’anno, senza subire le secche del Piave in estate e le ghiacciate d’inverno. E il Vajont era perfetto:

Nella gola stretta stretta, profonda, un canyon che il torrente Vajont si è scavato per andare a gettarsi nel Piave, progettano di costruire uno sbarramento artificiale alto 200 metri [Paolini - Vacis p. 24]

Solo di recente si è presa maggior coscienza di un dato diffuso ma non metabolizzato: che si è trattato di un disastro evitabile procurato dall’uomo, di un progetto tecnologicamente all’avanguardia su un sito geologicamente instabile, che di naturale non aveva nulla. E quindi l’acqua, il fango, la polvere, i morti erano effetti imputabili a qualcuno e non solo a madre natura, benigna o matrigna che fosse.

Altra inesattezza da rettificare: vi è chi ritiene che la catastrofe sia stata causata dal crollo della diga, posta al confine tra comuni veneti e friulani. Falso: l’orgoglio dell’ingegneria italiana, la più grande nel mondo, è ancora lì, intatta. Ciò che è franato è la punta del monte Toc, caduta sul lago artificiale. Da qui il senso del titolo: tanta terra e tanta acqua, ma anche il senso di una superficialità madornale, quella di non aver valutato la consistenza e la resistenza delle pareti della valle intorno alle quali la diga era appoggiata, chiamata a caricarsi centinaia e centinaia di milioni di metri cubi d’acqua. Lo dimostra il racconto di Paolini, quello di perizie non fatte o tardive, dopo le crepe rivelate nel corso della realizzazione della strada di circonvallazione.

Il discorso iniziato allora non è ancora terminato, coinvolge il nostro tempo chiamato a capire cosa ne sia del Vajont dopo Vajont, che fine abbiano fatto i contributi, gli investimenti sul territorio, a chi siano andati, secondo quali meccanismi, come si sia arginato lo spopolamento delle parti alte della montagna, come si siano difese le radici di un luogo devastato. Tra le tante viene ricordata la storia di Erto, che a suo modo le riassume tutte, quella della ricostruzione materiale ma non di quella sociale e personale.

Il documentario, come i libri di Tina Merlin e gli spettacoli di Paolini, tenta di ristabilire la verità dei fatti, sgombrando il campo a inesattezze che nel corso di cinque decenni hanno rallentato la comprensione di ciò che è avvenuto. Sottolinea informazioni non giunte a destinazione, o semplicemente lasciate cadere. Riaccende i riflettori su una tragedia troppo spesso travisata, sottaciuta e abbandonata alle ricorrenze. Cerca inoltre di divulgare il sentimento, la vita attuale di chi è sopravvissuto e di porre un monito contro le Vajont di domani.

Per chi volesse informazioni ed essere aggiornato su proiezioni ed eventi, questo il sito: http://www.vittoriovespucci.it/vajont/

Testi consultati:

1. Il Vajont dopo il Vajont, 1963-2000 – a cura di Maurizio Reberschak e Ivo Mattozzi, Marsilio Editore, 2009

2. Marco Paolini – Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti 1997


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