Dodici anni di Plan Colombia

Creato il 28 gennaio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Tra le varie politiche adottate dagli Stati Uniti nei confronti dei paesi latinoamericani negli ultimi anni, sicuramente una di quelle che ha suscitato grande scalpore e profondo interesse è il Plan Colombia, l’accordo bilaterale siglato nel 1999 dal presidente colombiano Andrés Pastrana Arango e dall’amministrazione Clinton. Tre erano gli obiettivi essenziali dell’accordo: arrestare il conflitto armato interno che da anni insanguinava la Colombia; generare una rinascita economica e sociale del paese latinoamericano e coordinare gli sforzi comuni per arrestare il narcotraffico, vera e propria piaga non solo colombiana ma di molti altri paesi latinoamericani. “Il Plan Colombia è una strategia integrata per rafforzare la pace, riattivare l’economia, generare occupazione, proteggere i diritti umani, rafforzare la giustizia e aumentare la partecipazione sociale”, dichiarava il Presidente Pastrana al momento della firma dell’accordo.

Oggi, a quasi tredici anni dalla sua approvazione, appare necessario valutare i suoi risultati, ascoltando le opinioni di quanti ritengono che il Plan Colombia abbia rappresentato un trionfo insindacabile e quanti, invece, sostengono che si sia trattato di un progetto storico fallimentare. Come si sa la verità sta spesso nel mezzo. Sono varie le ragioni che spiegano il perché di questo piano di assistenza fortemente voluto da Washington. Da una parte ci sono gli interessi economici: petrolio e carbone sono solo alcune delle materie prime su cui gli Stati Uniti avevano messo gli occhi; dall’altra ci sono gli interessi strategici: la Colombia è il terzo paese più popoloso dell’America Latina, ha coste su entrambi gli oceani e il Canale di Panama è nelle sue vicinanze. A ciò si aggiunga il fatto che nei disegni dell’amministrazione statunitense, la Colombia avrebbe potuto giocare un importante ruolo di contrappeso rispetto all’ondata di leader progressisti eletti in America Latina, primo tra tutti Hugo Chavez.

La necessità di appoggiare un programma di crescita per la Colombia fu chiaro a Bill Clinton nel momento in cui a Washington andava crescendo la preoccupazione per il crescente deterioramento delle condizioni di sicurezza interna, specialmente di fronte al fatto che l’esercito regolare colombiano non era più in grado di fronteggiare l’avanzata delle FARC, Fuerzas Armadas Revolucionaria de Colombia, una delle più longeve organizzazioni rivoluzionarie del mondo che infiamma il paese dagli anni ’60. A questo drammatico problema si sommava l’allarme statunitense relativo alla cosiddetta “guerra della droga” che affliggeva non solo la Colombia stessa, ma anche i paesi ad essa circostanti e gli Stati Uniti, il mercato principale dei narcotrafficanti colombiani. Dinanzi a questo scenario di incredibile instabilità, il piano di aiuti rappresentava la scelta giusta al momento giusto.

Indipendentemente dal fatto che la preoccupazione principale fosse il problema della droga negli Stati Uniti o la situazione della sicurezza in Colombia, era chiaro che l’unica maniera per ricavare un appoggio politico importante e per ottenere risorse significative era presentare la proposta come una misura essenzialmente antidroga. Dunque, nonostante gli intenti iniziali di Pastrana, più orientato a ricevere aiuti economici per attenuare il conflitto interno, il Plan Colombia si trasformò immediatamente in un pacchetto di misure contro il narcotraffico. Dai report del Dipartimento di Stato statunitense emerge che l’amministrazione Clinton approvò inizialmente un piano di aiuti del valore di 600 milioni di dollari finalizzati alla creazione e all’addestramento di corpi specializzati per la lotta al narcotraffico, oltre alla concessione di 60 elicotteri Blackhawk indispensabili per la distruzione delle piantagioni di coca nel sud del paese1. Fu solo questione di tempo prima che la spesa statunitense relativa al pacchetto di misure raggiungesse i 7 miliardi di dollari senza che l’obiettivo dichiarato di bloccare la produzione di coca venisse raggiunto2.

Da subito, la critica principale rivolta al Plan Colombia3 fu quella di essersi concentrato esclusivamente sul problema della droga, senza aver tenuto adeguatamente conto del problema principale, quello cioè di rinforzare le istituzioni fondamentali dello Stato colombiano, vera e propria chiave per consentire una crescita reale del paese. Nonostante ciò, negli ultimi dodici anni la situazione in Colombia è migliorata notevolmente. Non si può più parlare di un “paese sull’orlo del precipizio” e a dimostrarlo sono le statistiche: i rapimenti sono diminuiti del 57%, i massacri del 71% e gli omicidi del 31% anche perché le FARC, pesantemente indebolite, non sono più così operative come un tempo4. Ciò che non risulta chiaro è quanto gli Stati Uniti e il loro piano di aiuti abbiano influito in questo lento cambiamento. Risulta difficile individuare il peso effettivo degli aiuti del piano di assistenza economica e militare rispetto a tutte quelle iniziative locali e nazionali, nate a prescindere dal sostegno statunitense, destinate a controllare la violenza all’interno del paese. I sostenitori del progetto nordamericano concludono che l’appoggio dato dal Plan Colombia è stato perlomeno un fattore importante che ha contribuito a migliorare le condizioni di sicurezza interne al paese; infatti, anche se l’aiuto si è canalizzato in maniera indiretta ed è stato conseguenza dell’utilizzo di fondi destinati esplicitamente alla lotta contro il narcotraffico, ha permesso di aiutare i colombiani ad instaurare un maggior controllo dell’ordine pubblico del paese. «Credo che siamo ad un punto di svolta in Colombia – ha dichiarato il Comandante del Southern Command, Generale Batz Craddock – La gente ha ripreso a parlare della pace come di qualcosa che possa accadere realmente. Il governo colombiano è impegnato a portare avanti la battaglia contro il terrorismo e a ripristinare la sicurezza per il necessario rafforzamento delle sue istituzioni democratiche. Fondamentale a questo scopo è stato il piano di aiuti previsto dal Plan Colombia»5

In realtà, i sostenitori del pacchetto di misure statunitense non hanno tenuto in considerazione alcuni aspetti. Innanzitutto la priorità degli Stati Uniti è stata riservata alla totale eradicazione delle piantagioni di coca allo scopo di ridurre drasticamente la produzione di droga. Come sappiamo, il proposito fondamentale per il quale era nato il programma di assistenza non è stato raggiunto: ancora oggi circa il 90% di coca distribuita negli USA proviene dalla Colombia. Un documento del 2009, elaborato dall’ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) mostra addirittura un aumento della coltivazione di coca rispetto agli anni precedenti e una diffusione di coltivazioni anche nei paesi limitrofi di Perù e Bolivia6. Sommando le cifre dei tre paesi andini, è possibile notare come la produzione di coca sia stata ridotta solo del 6%, nel periodo che va dal 2000 al 2003. Inoltre, lungi dall’essere scoraggiati dalle fumigazioni ordite dall’esercito colombiano e dai corpi specializzati statunitensi, i coltivatori di coca stanno continuando a seminare più che mai. Le stime ufficiali indicano che tra il 2000 e il 2007 il numero totale di ettari coltivati a coca è aumentato del 34% in Colombia e del 33% nel resto della regione andina7.

Senza dubbio c’è chi sostiene che per quanto grave sia il problema della droga oggi, sarebbe stato molto peggio senza gli aiuti previsti dall’accordo bilaterale, il che non è incoraggiante. In realtà anche coloro che dieci anni fa si mostravano entusiasti del Plan Colombia, riconoscono ora che la politica antidroga è stato un tremendo fallimento e che si dovrebbero esplorare piani alternativi. Ad oggi, quindi, si può affermare che tale pacchetto di misure abbia sicuramente esteso l’influenza di Washington su Bogotà fallendo, però, su gli obiettivi principali. Anche alcune ricerche del Center for Strategic and International Studies dimostrano che è ben difficile essere ottimisti circa i risultati del Plan Colombia, soprattutto se si tiene in considerazione una prospettiva a lungo termine che non guardi solo alla Colombia ma anche al resto della regione8. A complicare questo clima d’incertezza legato ai risultati fallimentari del progetto di sostegno si aggiunsero le aspre critiche relative alla presenza di militari statunitensi sul territorio colombiano considerata una vera e propria minaccia non solo dai detrattori dell’accordo bilaterale ma anche da altri paesi latinoamericani, Venezuela in primis.

Il 15 luglio del 2009, il Presidente colombiano Uribe ammise pubblicamente di aver firmato un accordo con Washington relativo alla concessione di sette basi colombiane agli Stati Uniti al fine di realizzare operazioni congiunte destinate a reprimere il narcotraffico e il terrorismo. La notizia ha scosso tutta la regione, in primo luogo a causa della segretezza con cui i due paesi hanno condotto le trattative e in secondo luogo perché il Pentagono raggiungeva in tal modo il massimo livello di penetrazione militare nel cuore dell’America Latina. La storia dimostra come il continente latinoamericano sia abituato all’intervento diretto e indiretto, palese e mascherato delle forze militari statunitensi; tuttavia è interessante valutare le motivazioni di tale incursione militare in un’area geografica che non è percorsa da conflitti di rilevante entità e che non ha armi nucleari a disposizione. Sarebbe un’analisi troppo ingenua attribuire tale penetrazione militare esclusivamente alla lotta al narcotraffico e alla guerriglia, a fronte soprattutto del fatto che l’esercito colombiano è riuscito in questi anni a ridurre notevolmente la forza dei gruppi armati insurrezionali. Secondo quanto hanno riferito in forma anonima alcuni funzionari del Pentagono alla stampa colombiana9, la risposta a tale enigma si ritrova nella base aerea di Palanquero, la cui posizione nel cuore della Colombia ha un straordinaria valenza strategica.

A prima vista questa base non ha niente di speciale ma l’esercito colombiano vi custodisce la sua flotta aerea militare più pregiata e il Pentagono ha richiesto 46 milioni di dollari per costruirvi nuovi hangar ed edifici. I motivi per cui la base di Palanquero è così richiesta risiedono nel fatto che ha una delle piste d’atterraggio più lunghe dell’America del Sud con i suoi 3,5 chilometri, ma soprattutto si tratta di una base aerea la cui posizione può permettere a un C-17 di coprire la metà del continente latinoamericano senza fare rifornimento. I leader dell’UNASUR hanno discusso a lungo sull’entità della presenza militare straniera, per non dire nordamericana, nel continente. In particolare, durante il summit dell’Unione della Nazioni sudamericane di Barriloche, Chavez rivelò il contenuto del white paper del Comando di Mobilità Aerea (AMC) del Pentagono in cui il Dipartimento della Difesa statunitense tracciava i suoi piani relativi alle basi d’appoggio fino al 2025. Il documento dimostra chiaramente che le azioni militari statunitensi non saranno da intendersi solo in chiave antinarcotraffico in Colombia ma si dispiegheranno in tutto il continente e Palanquero, in particolare, sarà la base di punta da dove partiranno diverse missioni extracontinentali. Da Palanquero, infatti, la forza aerea statunitense potrà raggiungere facilmente la costa africana, considerata un’area critica per la difesa strategica globale molto prima che la Primavera Araba cominciasse a cambiare il panorama dell’Africa settentrionale.

Il documento dell’AMC impugnato da Hugo Chavez presenta un quadro dettagliato di tutte le basi statunitensi presenti in America Latina e prova a giustificare l’entità della presenza militare americana come conseguenza degli accordi di cooperazione militare tra Venezuela e Russia e tra Brasile e Cina10. Dinanzi a questo scenario strategico e militare potenzialmente pericoloso per gli USA, il Pentagono ha ritenuto essenziale promuovere tale penetrazione militare al fine di riaffermare il proprio strapotere egemonico; quindi senza ombra di dubbio il Plan Colombia ha rappresentato per Washington lo strumento migliore per compiere i propri fini strategici. Hugo Chavez fu uno dei primi leader dell’America Latina a riferirsi esplicitamente ad un “nuovo Vietnam”, mettendo in guardia tutti i paesi sul fatto che il pacchetto di misure avrebbe potuto generare “un conflitto di media intensità in tutta la zona settentrionale del Sud America”11. La posizione apertamente contraria di Chavez rispetto all’interferenza statunitense venne ripresa anche dalla maggior parte dei leader regionali, i quali credono che i problemi di sicurezza e di lotta al narcotraffico siano problemi esclusivamente colombiani e, pertanto, dovessero essere gestiti e risolti dal governo di questo paese. L’avversione di alcuni paesi della regione nei confronti del Plan Colombia fu parzialmente giustificata dal fatto che gli Stati Uniti svilupparono tale piano di assistenza senza realizzare adeguate consultazioni diplomatiche con i vicini della Colombia e dalla firma, nel 2009, dell’accordo di cooperazione in materia di difesa tra Washington e Bogotà che assicurava agli Stati Uniti l’utilizzo di sette basi colombiane.

Se nei piani iniziali l’assistenza degli Stati Uniti prevista dall’accordo bilaterale poteva essere utilizzata solo ed esclusivamente in operazioni che avessero connessioni con il narcotraffico, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 i problemi della sicurezza e della lotta al terrorismo diventavano predominanti tanto da decidere di rendere più flessibile l’erogazione degli aiuti previsti dal Plan Colombia e da permettere al governo colombiano di utilizzare tali aiuti per qualsiasi questione relativa all’ordine interno anche non connessa al narcotraffico12. In realtà, la guerra in Iraq e la lotta al terrorismo drenarono notevolmente buona parte degli aiuti forniti da Washington: le priorità della guerra al terrorismo fecero retrocedere la Colombia da terzo paese destinatario di aiuti militari nel 2003 (dietro solamente a Israele ed Egitto) a settimo paese nel 2005 (dietro a Iraq, Afghanistan, Israele, Egitto, Pakistan e Giordania)13. Non si poteva più dipingere la Colombia – e l’America Latina in generale – come un teatro principale per la guerra globale al terrore, anche se nei confronti di Chavez l’amministrazione Bush mantenne sempre un approccio totalmente ostile. Si pensi, ad esempio, al fatto che più volte l’Ambasciatore statunitense a Bogotà William Wood espresse al Presidente venezuelano la preoccupazione degli Stati Uniti circa il suo personale rapporto con alcuni guerriglieri delle FARC.

Ad ogni modo, appare necessario sottolineare che, trascorsi quasi tredici anni dall’entrata in vigore del piano di assistenza e nonostante le difficoltà economiche avvertite degli Stati Uniti, le varie amministrazioni che si sono alternate negli anni hanno continuato ad elargire aiuti al paese andino. L’amministrazione Obama ha proposto, nel 2011, alla Colombia un piano di assistenza del valore di 400 milioni di dollari. Sebbene il pacchetto di aiuti sia notevolmente ridimensionato rispetto ai pantagruelici programmi di assistenza precedenti, si tratta pur sempre di un’importante forma di aiuto che Washington mette a disposizione del paese latinoamericano al fine di risolvere qualsiasi tipo di problema legato al narcotraffico e all’ordine interno14. Molti considerano i costanti aiuti statunitensi un’ancora di salvataggio che impedisca alla Colombia di ricadere nel disordine interno. Probabilmente lo pensa anche l’attuale Presidente colombiano Juan Manuel Santos che sta portando avanti un programma di governo incentrato sulla lotta al narcotraffico e alla guerriglia così come il suo predecessore Alvaro Uribe, cercando di mantenere inalterati e di sfruttare il più possibile gli aiuti forniti da Washington.

Con l’obiettivo primario del mantenimento dell’ordine interno, Santos ha dato il via agli storici negoziati con le FARC, il quinto tentativo dopo quelli del 1984, 1991, 1998 e 2002. I sanguinosi decenni che la Colombia si è lasciata alle spalle sembrano aver portato al governo la consapevolezza di non poter risolvere il conflitto su un piano militare e di dover quindi fare aperture nella direzione di un dialogo politico. Il Presidente Santos è stato in grado di dare una svolta decisiva al processo di pace con i guerriglieri; infatti, mentre Uribe aveva impostato la lotta alla guerriglia su un asse di ferro con gli USA che gli ha garantito 6 miliardi di dollari, esponendo la Colombia ad un grave rischio di isolamento rispetto ad un’America Latina che stava virando decisamente a sinistra, il nuovo Presidente ha puntato tutto sulla normalizzazione dei rapporti con Chavez, il quale gli ha anche assicurato il passaggio dall’appoggio alle FARC ad una collaborazione contro di loro, anche al punto di estradare in Colombia alcuni loro leader rifugiatisi in Venezuela15, 16. Dopo la firma di un accordo preliminare di cinque punti il 27 agosto di quest’anno, si è deciso di riprendere le trattative ad ottobre. I primissimi colloqui sono avvenuti ad Oslo dove Cuba e Norvegia hanno svolto il ruolo di mediatori. Il negoziato è partito dai punti concordati a L’Avana e che riguardano: lo sviluppo rurale e la riforma agraria (rivendicazione storica degli insorti), la partecipazione politica, la fine del conflitto armato, il problema delle droghe (sostituzione delle coltivazioni illegali, stop alla produzione e vendita di stupefacenti) e quello delle vittime (si discuterà delle violazioni dei diritti umani). Ognuno di questi temi presenta varie incognite ed elementi che, già nell’incontro di Oslo, hanno messo in crisi i tentativi di dialogo.

A guardare con grande interesse a quanto accade al tavolo delle trattative ci sono due spettatori d’eccezione: Raul Castro sostiene il negoziato considerando una vittoria diplomatica l’eventuale accordo definitivo tra il governo colombiano e la guerriglia d’ispirazione marxista-leninista. Un po’ come Oscar Arìas venticinque anni fa in America centrale, Castro spera di poter giocare il ruolo del grande mediatore e porre fine ad un conflitto sanguinoso che dura dal 1964. Altro grande spettatore attento delle trattative è Hugo Chavez, il quale vuole dimostrare tutta la sua riconoscenza a Santos per aver cambiato atteggiamento nei suoi confronti. Il Venezuela, una volta santuario delle FARC, è diventato in poco tempo un alleato del governo colombiano verso cui ha iniziato a estradare guerriglieri e narcotrafficanti. Inoltre, il leader venezuelano così come Castro, auspica una vittoria diplomatica che lo celebri come fondamentale mediatore delle trattative, dando lustro alla sua grandeur. Il buon esito delle trattative tra i guerriglieri e il governo della Colombia avrebbe per il Venezuela anche una decisiva ricaduta pratica: contribuirebbe al ritorno della pace e della stabilità lungo gli oltre due mila chilometri di confine, zona in cui il contrabbando è florido, i paramilitari agiscono indisturbati e le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno; si pensi solamente che ad oggi in Venezuela ci sono circa 200 mila profughi colombiani. Nonostante alcuni intoppi iniziali sulla questione del cessate il fuoco, entrambe le parti hanno concordato di fissare al novembre 2013 la scadenza massima entro la quale raggiungere un accordo, pena il fallimento dell’ennesimo tentativo di trovare una soluzione pacifica alla guerra. Riporre le armi, tuttavia, non basterebbe a riportare la tanto anelata pace in Colombia: bisognerebbe cambiare il modello di sviluppo, rafforzare lo stato sociale di diritto, rimaneggiare la riforma agraria e avviare un processo concreto che superi le grandi disuguaglianze sociali presenti in Colombia, come nel resto dell’America Latina. Si tratta, in definitiva, di tutte misure che avrebbero dovuto essere incluse nel Plan Colombia di Clinton, il quale invece ha puntato tutto sul piano antidroga.

Di fronte ai possibili successi del processo di pace, Washington applaude al nuovo establishment colombiano, probabilmente considerato in grado di poter risolvere autonomamente i problemi che continuano ad affliggere la Colombia ed evitare così di continuare ad elargire annualmente gli aiuti economici previsti dagli accordi di cooperazione. Non è dello stesso avviso l’ex Presidente Andrés Pastrana che critica il fatto che gli USA vogliano “scaricare” la Colombia, sostenendo che il piano di assistenza fu stipulato secondo il principio della corresponsabilità ed è, pertanto, necessario riassumere l’impegno da parte di entrambi i paesi nella lotta al narcotraffico. Il principio della corresponsabilità riposa, secondo Pastrana, nel fatto che la Colombia produce cocaina perché il mondo la consuma, specialmente gli Stati Uniti che sono il mercato principale. Ed è proprio per questo motivo che il Congresso nordamericano non dovrebbe ridurre gli aiuti al governo colombiano17.

Se volessimo riassumere i successi e i fallimenti del pacchetto di misure statunitense, ad oggi potremmo sicuramente affermare che il progetto di assistenza economica e militare ha funzionato piuttosto bene per ridurre la forza delle FARC; i guerriglieri sono passati da venti mila uomini a meno di dieci mila, mentre l’esercito colombiano ha migliorato la sua capacità d’azione, diventando uno dei più preparati al mondo nella lotta al narcotraffico, tanto da esportare le sue strategie in Afghanistan, Uruguay, Paraguay, Jamaica e Messico18. Da una prospettiva globale, però, il piano di assistenza “made in Washington” ha lasciato parecchio a desiderare: infatti la produzione di cocaina non è diminuita, anzi è progressivamente aumentata anche in altri paesi come il Perù, a dimostrazione del fatto che la richiesta da parte di numerosi paesi, Stati Uniti in primis, continua a rimanere molto alta. Altri critici del Plan Colombia, tra cui l’Ufficio di Washington per l’America Latina, affermano che l’eccesso di potere che hanno ottenuto le forze armate colombiane si è tramutato molto spesso in violazioni dei diritti umani, per non parlare di quanti coloro accusano l’accordo bilaterale di aver causato un irreparabile danno ambientale provocato dalle fumigazioni alle piantagioni di coca. Tutti questi fattori sono macchie che impediscono qualsiasi applauso.

Quasi tredici anni dopo la Colombia si prepara per una nuova fase; una fase in cui si ottenga una collaborazione con i paesi limitrofi nella lotta alla guerriglia e al narcotraffico, una fase in cui si consolidi la presenza dello Stato al di là della potenza militare. Uno Stato che, dopo tanti anni, inizi a tessere la via per la pace.


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