Di tanto amarti perduto
non che resterà questo:
il ricordare a strappi come si leva
una benda per rabbia da una ferita fresca,
solo frammenti, dettagli di sangue, o svolte fulminee,
il senso del dolore prima che il dolore esulti:
il poco, il breve,
che non sapevamo, vivendoli, capaci d’immenso.
Mi sono imbattuto in questi incredibile versi di Alberto Bevilacqua sfogliando distrattamente una rivista nella noia d’un sabato pomeriggio.
Tema della lettura è un argomento che in questo periodo sto vivendo di riflesso e che pertanto posso solo intuirne la drammatica e mostruosa complessità.
I dolori immensi rendono piccolissima l’infelicità per l’amore perduto?
Si è capaci di distinguere il dolore per la morte di una persona cara, un figlio o un genitore, da quello di un amore perduto? È possibile discernere la quantità e la qualità di lacrime a seconda del dolore che si vive?
Domande troppo grandi, alle quali faccio fatica a poter rispondere. Mi manca la sensibilità sol per tentare di abbozzare una minima considerazione al riguardo. Del resto l’orrido risultato del passaggio della Morte l’ho vissuto ch’ero infante e beato spalancavo gli occhi al mondo mentre tutto intorno a me era sangue polvere e disperazione dopo quell’infausta notte di novembre dell’Ottanta.
Certo, non sono rimasto immune dal dolore (e non mi riferisco a quello fisico) ma non avendo un determinato termine di paragone risulterebbe un mero esercizio di stile immedesimarmi in quanti vivono la quotidiana lotta con la Morte, soprattutto quando assume la forma di un male oscuro che logora silenziosamente poco alla volta.
Marcel Proust, che conosceva il dolore (per la malattia, per le delusioni che di continuo persone e ambienti avevano riservato alla sua delicata sensibilità), scrisse: «…Ma a volte, proprio nel momento in cui tutto ci sembra perduto, giunge il messaggio che ci può salvare: abbiamo bussato a porte che davano sul nulla, e nella sola per cui si può entrare e che avremmo cercato invano cent’anni, urtiamo inavvertitamente, ed essa s’apre…».
È questo forse il migliore augurio da fare a coloro (sai che ti sono vicino) che vivono un qualunque tipo di sofferenza, tenendo sempre a mente, per giunta, che “il dolore è un dono. Senza dolore, gli esseri umani non conoscerebbero né la paura né la pietà. Senza la paura, non vi potrebbe essere l’umiltà e gli uomini sarebbero dei mostri. Vedere negli altri il dolore e la paura fa nascere in noi la pietà e in questo sentimento sta la nostra umanità, la nostra redenzione”.