«Via, via! sapete perché voi piangete, invece? Per un’altra ragione piangete, cari miei, che non supponete neppur lontanamente. Voi piangete perché il morto, lui, non può più dare a voi una realtà. Vi fanno paura i suoi occhi chiusi, che non vi possono più vedere; quelle sue mani dure gelide, che non vi possono più toccare. Non vi potete dar pace per quella sua assoluta insensibilità. Dunque, proprio perché egli, il morto, non vi sente più. Il che vuol dire che vi è caduto con lui, per la vostra illusione, un sostegno, un conforto: la reciprocità dell’illusione». - I pensionati della memoria, Luigi Pirandello
La scelta di Francesco Saponaro di mettere in scena Dolore sotto chiave e Pericolosamente, atti unici in cui Eduardo De Filippo sperimenta una rapidità ed una sagacia felicemente provocatorie, è una scelta prima di tutto coraggiosa: quanto sarebbe facile cadere nell’errore, specialmente per quel che riguarda il contenuto di Pericolosamente, di credere De Filippo un misogino ed un misantropo, o spacciarlo come tale solo per ottusa comodità. Saponaro fa una scelta coraggiosa perché entrambi i testi sono una pugnalata nel cuore del perbenismo borghese benpensante che pervade la nostra società – e non si creda che dire borghese oggi non significhi più nulla, visto che esiste ancora chi lava i panni sporchi in casa e li dimentica incresciosamente nella centrifuga approfittando dell’occasione per rifarsi il guardaroba -.
Buio. Il sipario rimane chiuso. Qualche secondo e dal lato sinistro del palco si fa avanti un uomo, lucerna in mano, coppola sul capo, Giampiero Schiano in veste di schiattamuort (becchino) si rivolge al pubblico sfacciatamente, atteggiandosi a gran conoscitore della vita e della morte, coinvolge lo spettatore in una certa complicità che durerà fino alla fine della rappresentazione.
Il prologo è tratto da I pensionati della memoria, novella pirandelliana che Raffaele Galiero ha tradotto in lingua napoletana con estremo gusto. Nella lingua della città-teatro che è Napoli, è difficile – anzi, è proprio impossibile – non riconoscere l’universo fatto di maschere e di archetipi che aleggiano preceduti da un’aurea grottesca, ferocemente umoristica, a tratti prepotente. Basta la sola lingua, la sola parola, in stati di grazia che certo non colgono chiunque, e subito è teatro.
Eduardo prende i limiti umani e sociali, vita-morte, menzogna-verità, dovere-volere, meglio, morale-desiderio e ce li indica mentre corrodono i suoi personaggi, tutti affannati a nascondersi le paure e le frustrazioni tra le mura domestiche che sono, in verità, tombe di famiglia, stucco sulle facciate altrimenti grezze dell’animo umano.
Il filo rosso che lega Dolore sotto chiave e Pericolosamente è l’ipocrisia, l’ipocrisia della vita coniugale e dell’amore fraterno, in definitiva, l’ipocrisia dei rapporti interpersonali che rende gli abiti (i costumi sono di Lino Fiorito) polverosi e sbiaditi.
Chi infatti può dire se la lagnosa Lucia Capasso che impedisce al fratello Rocco di “soffrire, piangere e disperarsi al momento giusto” agisca in pura buona fede, agisca soltanto per proteggerlo dall’eventuale colpo di rivoltella che, giusto per modo di dire, ha promesso di tirarsi nell’eventualità della vedovanza. In Dolore sotto chiave il gioco sul limite è molto evidente nella scrittura così come l’incrinatura verso l’assurdo e il metafisico, nella messinscena le scene di Lino Fiorito concorrono a rendere l’atmosfera ferocemente grottesca: due porte (l’una che nasconde l’assenza della moglie di Rocco, l’altra è la soglia che separa il mondo e l’ambiente familiare) sono coperchi di bare, il tavolo rotondo attorno al quale si muovo i due personaggi e le tre sedie diventano un unico elemento che gli attori gestiscono con grande consapevolezza dello spazio. Su quel tavolo rotondo nella prima scena Lucia gioca a carte in attesa del ritorno di Rocco, è un gesto che preconizza la tensione: a carte si bara specialmente quando si è soli.
Luciano Saltarelli incurva le spalle, piega le ginocchia, cammina appoggiando il peso sui talloni, è una zitella efficace, ma la sua interpretazione non cade nel didascalismo e nell’esagerazione macchiettistica: la sua Lucia è il ritratto umoristico di una donna insoddisfatta, tediosa e tediata dalla propria stessa solitudine. Tony Laudadio che interpreta Rocco crea con il compagno di scena un ritmo serrato: il suo vedovo è rabbioso, furibondo e pronuncia con febbrile leggerezza le coerenti riflessioni sulla morte di chi si ama e sulla vita di chi rimane, riflessioni con cui vuole inchiodare la sorella alle proprie responsabilità. Chi commette il peccato, cos’è il peccato, è peccato non sopportare la sofferenza?
Con presenza scenica Tony Laudadio manifesta la doppia disperazione del suo personaggio senza essere costretto ad esagerare o a rifugiarsi in una impostazione già sentita, già vista, già vissuta. Nella menzogna, nell’ipocrisia, sono coinvolti anche gli “amici” condomini: la posticcia maschera di dolore del Professore, un frizzante Giampiero Schiano, che interviene con tardiva consolazione, è una iterazione di quell’ipocrisia disgustosa che Rocco ha subìto e a sua volta ha dovuto adottare per resistere, per proteggere il proprio amore da un micromondo di persone abituate a “parlare alle spalle“. L’andamento della messinscena del primo atto unico è circolare: Saponaro inserisce le voci fuori campo degli inquilini in esordio, nel finale quelle voci ritornano per poi ridursi al silenzio, al silenzio squarciato solo dallo squillo insistente del telefono unica ed ultima voce che chiude la rappresentazione.
Per Pericolosamente la scenografia cambia radicalmente e sotto gli occhi del pubblico. Il buio è sostituito da una diffusa luce calda. Non ci sono porte, ma pannelli chiari ed una poltrona verde. In scena c’è una moglie in vestaglia che canticchia “Bang bang” di Dalidà – ironia drammatica postmoderna del regista -. Luciano Saltarella interpreta con misura una donna che cerca di emanciparsi dal marito, ma che il marito intimorisce a colpi di rivoltella caricata a salve. Qui la scelta di affidare il ruolo femminile ad un attore acquista una valenza ed una funzione precisa all’interno del racconto: in tempi in cui la violenza sulle donne ed il femminicidio sono argomenti difficili da trattare, con il rischio della retorica inconcludente o della eccessiva superficialità, vedere un uomo prendere su di sé il dovere essere donna è un segnale, al di là di tutto.
Eduardo utilizza elementi farseschi, plautini. La trama è semplice: sotto gli occhi esterrefatti di un amico di famiglia tornato a Napoli dopo quindici anni in America, un marito tacita la moglie “indisponente” sparandole. A salve, abitualmente, ma non sempre. I tre attori in scena cambiano radicalmente intenzioni e attitudini dimostrando grande duttilità: Laudadio perde la vena malinconica ed acquista la sfrontatezza nuova di Arturo, Saltarella non è più la zitella ingrigita ma Dorotea la moglie sfiorita e miracolata che forse sa più di quello cui acconsente, Giampiero Schiano è l’amico di famiglia Michele che scatta e si appiattisce, si piega e fa stridula la voce adattandosi alle stramberie nevrotiche dei coniugi.
Tutti i mariti, ci fa sapere con ardire sornione Arturo, hanno adottato il suo metodo e c’è chi lo proporrebbe volentieri come candidato al Nobelper la Pace. Ipocrisia, menzogna, rivoltella: i tre elementi si rincorrono e si mescolano. Ipocrita è dunque questo sposarsi senza davvero sopportare la convivenza, ipocrita è fare un giuramento davanti agli uomini e a Dio di eterno – fino alla morte – e vicendevole sostegno e poi tacitare la consorte con mezzucci intimidatori.
La regia di Saponaro è impeccabile, ancora una volta si assiste ad una gestione sicura degli spazi, dei tempi scenici e del ritmo. I tre attori sono perfettamente intonati. Il talento di Eduardo è spingere lo spettatore alla risata, ma è una risata amara: «Non dovrei ridere di un marito che spara alla moglie» si interroga lo spettatore. Infatti non si ride per il fatto in sé. Si ride perché il momento teatrale è riuscito, il rito collettivo è riuscito: l’atto scenico ha generato una risata che provoca nello spettatore il lieve smarrimento e la successiva consapevolezza dell’orrore della società superficiale e profondamente violenta che proietta nella sfera familiare i suoi demoni, la sua incontenibile volontà di dominio sulla vita e sulla morte, sul dolore, sulla solitudine e sulla incapacità di comunicare.
Né il finale di Dolore sotto chiave, né quello di Pericolosamente è una vera conclusione. L’ambiguità rimane e inquietante proietta con chiarezza un’ombra cupa. Il talento del regista è mostrare tutta la freschezza e la spiazzante attualità della parola eduardiana con l’aggiunta della propria sensibilità. Il talento degli attori è grattare lo stucco e portare alla luce il grezzo dell’animo umano, dare fiato alle voci di dentro.
“Dolore sotto chiave/Pericolosamente” è una produzione di Teatri Uniti, Napoli Teatro Festival Italia, in collaborazione con l’Università della Calabria. Lo spettacolo ha debuttato nel giugno 2014 al Napoli Teatro Festival ed è tuttora in tournée.
Written by Irene Gianeselli