Oggi vedremo quella cui difficilmente si sfugge se hai pubblicato un libro o lo stai scrivendo: “Ma è autobiografico?”.
Nel divertente libro di Giuseppe Culicchia E così vorresti fare lo scrittore, una carrellata amaro-ironica sul mondo dello scrittore, spesso l'autore insiste su questa domanda-tormentone che gli viene posta in merito ai suoi romanzi: “Quanto c'è di autobiografico?”, come una specie di tortura senza mai fine. Io mi ero fatta l'idea, prima di leggerlo, che solo gli autori esordienti o comunque alle prime armi subissero questo interrogatorio, e invece pare di no!
Per quanto mi riguarda, è sempre stata una domanda ricorrente. Quando le persone leggevano I Custodi del Destino la prima cosa che mi chiedevano dopo era “È autobiografico? Hai vissuto tutto questo?”, sia che mi conoscessero da cinque minuti che da dieci anni. Una curiosità che ho sempre trovato terribilmente imbarazzante e troppo intima per meritare una risposta. Infatti, di solito mi arrampicavo sugli specchi o glissavo.
D'altra parte non so voi, ma a me non è mai capitato di leggere un romanzo di un autore più o meno affermato e poi di chiedermi; chissà se queste cose le ha vissute davvero? Perché dovrei farlo, cosa mi importa? Eppure, agli scrittori pseudo sconosciuti viene naturale domandarlo, come se fosse implicito che non sanno scrivere altro che ciò che gli è successo personalmente. Non è una specie di discriminazione questa?
Forse il mio fastidio deriva proprio da questo: è come se con questa domanda, ci venisse detto “Lo so che non sai andare oltre il tuo naso, quindi quello che scrivi è sicuramente autobiografico”.
Riflettendoci, poi, personalmente trovo che sia molto più interessante immergersi nei panni di qualcun altro e immaginare la sua storia piuttosto che rigirare sempre intorno a noi stessi. È chiaro che all'inizio chi scrive attinge molto dalla sua vita, da ciò che conosce e che gli è capitato. Anche i personaggi riflettono inevitabilmente le persone che ha incontrato. Ma, a meno di aver vissuto davvero cose degne di essere raccontate (la possibilità esiste, non voglio negarlo), verrà naturale staccarsi da tutto ciò. Il vero scrittore secondo me usa ciò che conosce solo come ispirazione ma poi sa andare oltre, sublimare anche le esperienze personali, sa trasformare le persone che ha conosciuto in personaggi.
Si potrebbe però anche dire il contrario. E cioè che tutto quello che scriviamo in realtà è frutto di cose vissute, un po' nella nostra testa un po' nella realtà. E come potrebbe essere altrimenti? Come si potrebbero descrivere certe sensazioni senza averle mai sperimentate, magari in altri ambiti? In questo senso, chiedere “quanto c'è di vero?” non è poi così assurdo.
In ogni caso, i lettori hanno sempre quella domandina morbosa in agguato. E io non posso fare a meno di chiedermi da cosa nasca: è una forma di pregiudizio? O una curiosità pura e semplice?
In conclusione, però, penso che se vogliamo diventare scrittori di qualità dovremmo far finta che questa domanda non ci venga mai posta. Con ciò voglio dire che dovremmo sentirci liberi fino in fondo di dar sfogo alla fantasia, così come ti attingere a ciò che abbiamo vissuto, senza timore del giudizio successivo.
E voi come reagite a questa frase? Ovviamente nel caso i vostri libri non siano davvero autobiografici!
E vi viene spontaneo rivolgerla?