Non sono un battistiano irriducibile: quelle canzoni appartengono semplicemente all’immaginario collettivo, di conseguenza al mio. Il punto è che non sono mai riuscito a identificarmi nei testi di Mogol. Sebbene ne abbia amato le atmosfere romantiche e apprezzi certo lirismo, una gran quantità di versi ha l'odore fastidioso del maschilismo vecchia maniera (parlo come una femminista sessantottina…). Per questo motivo non patii il trapasso da Mogol a Panella. Al contrario: quella di Battisti fu, secondo me, una mossa felice.
Don Giovanni costituì l’album della svolta. Fans e recensori rimasero disorientati, molti gridarono allo scandalo e dichiararono la fine del mito. A venticinque anni dall’uscita (marzo 1986), l’album resta invece un capolavoro per originalità e qualità. Le canzoni sono brevi atti unici, composti da melodie eleganti, ariose, incisive; le frasi musicali decollano in maniera sorprendente, lasciando nell’ascoltatore una misteriosa sensazione di vertigine. I testi, sospesi tra ermetismo e calembour, costituiscono un mosaico bizantino che s’incastona perfettamente nelle note. Gli arrangiamenti, cesellati da Greg Walsh, sottolineano il raffinato minimalismo dell’opera che ancora oggi affascina e sottilmente inquieta.
Dopo Don Giovanni ho fatto maggior fatica a orientarmi nel labirinto delle parole e il sound si è fatto troppo monotono per i miei gusti. Eppure continuo a pensare che Battisti abbia rappresentato l’avanguardia della musica pop, attraversando le generazioni, precorrendo stili e mode. Da Don Giovanni in poi ha cominciato a correre così veloce che pochi l’hanno seguito: ma io credo che il tempo gli darà, ancora una volta, ragione.