19 dicembre 2013 di Redazione
di Luigi Panico
Gerolamo Induno, “La partenza” (1873)
Dopo aver, finalmente, scongiurato per sempre il pericolo “Napoleone“, le potenze Europee riunite in congresso a Vienna nel 1814/15 sancirono, secondo un principio chiamato di Equilibrio e Legittimità, che: nessun Stato europeo avrebbe più potuto rafforzarsi rispetto ad altri e la restituzione al trono di quei sovrani che le conquiste napoleoniche avevano deposto.
Questo accordo conosciuto dalla storia col termine di Restaurazione, che mirava a ristabilire gli equilibri esistenti prima della bufera napoleonica, trovò l’opposizione di quelle correnti culturali e di pensiero, nate in Europa sulle ceneri della rivoluzione francese, che sostenevano ideali di nazionalismo e di eguaglianza ed auspicavano la concessione di libertà politiche, economiche e di pensiero sostenute da una Costituzione che stabilisse i diritti dei cittadini ed i limiti di potere dei sovrani.
L’Italia divisa in piccolissimi Stati e priva di un’identità nazionale fu travolta da quest’ondata di Liberalismo Democratico e mentre negli stati italiani del nord nobiltà e borghesia cominciavano ad adeguarsi alla nuova realtà, il Sud con la restaurazione del governo Borbonico e la negletta mentalità feudale della nobiltà, non disposta a perdere gli antichi privilegi fu osteggiato, sino all’unità se non oltre, in ogni tentativo delle masse popolari di migliorare la propria condizione di vita.
In Terra d’Otranto, ad eccezione di poche realtà cittadine più evolute come Lecce, Brindisi e Taranto, le condizioni di povertà e ignoranza erano desolanti; i contadini assoggettati ad ogni sorta di angheria dalle baronie proprietarie terriere ( basti pensare che ad inizio del 1800 esisteva ancora il diritto di ” Primae Noctis ” ), erano legati, assieme alle loro famiglie e per tutta l’esistenzana, alla terra che lavoravano e al suo proprietario, in cambio del minimo indispensabile alla soprawivenza. In questa atroce e squallida realtà, fu inevitabile la nascita di sette e fenomeni di intolleranza e di brigantaggio, ma anche di società segrete dai nobili ideali come la Carboneria.
A questa voglia di indipendenza, di giustizia e di riscatto morale anche Surbo dette il suo contributo con uomini come il mazziniano Don Luigi Messa ma anche con don Michele Nesta, don Donato Miglietta, Michele Messa, Giacomo Messa, don Vincenzo Vergallo, don Giuseppe Marini, Santo Mazzetta, Vincenzo Elia, don Samuele Perrone ma su tutti spiccò la figura e la personalità dell’arciprete don Pietro Valzani, fulgido faro di cultura e sacrificio patriottico.
Pietro Valzani nacque a Surbo il 9 giugno 1775 da Francesco e Francesca Gravili, di famiglia poverissima, il padre esercitava il mestiere di calzolaio, il giovane Pietro andò a studiare dai preti, suoi docenti furono l’arciprete Leopoldo Pino ed i sacerdoti don Giuseppe Gocciolo e don Saverio De Rinaldis, le cui capacità culturali e didattiche, a quei tempi, facevano accorrere la gioventù dei paesi vicini.
Terminati gli studi ecclesiastici ed indossata la tonica si recò in Brindisi dove assunse l’incarico di istitutore dei figli del barone Giuseppe Romano e qui rimase, adempiendo al suo compito, sino al 1804.
Alla morte dell’arciprete Pino (1807) la Curia bandì un concorso per la successione all’incarico e don Pietro, a soli 32 anni, vi partecipò e lo vinse, per il sorgere di vari contrasti tipici dei tempi, venne nominato arciprete solo nel 1809. Seguito ed amato dal popolo per la vasta cultura, per la caratura morale ed in particolare per la sua capacità di rapportarsi con tutti ed in special modo con le genti più umili, Pietro guadagnò stima ed affetto incondizionato.
Spinto da un innato senso di Giustizia e Libertà, attraverso la conoscenza del capo della Banda Militare degli Esteri venuto in Surbo a suonare in occasione della festa di S. Oronzo, si iscrisse il 19 settembre 1815 alla Carboneria. Da Carbonaro partecipò a Lecce ad una “Rivendita” tenuta nel palazzo dei Marchesi Corso, dove si erano riuniti tutti i capi dell’Organizzazione segreta. Per lo spessore e la profondità dei suoi interventi, don Pietro venne apprezzato dagli associati, tanto da meritarsi grandi riconoscimenti e la nomina a capo del movimento Provinciale. Il suo ruolo e la sua autorevolezza giovarono notevolmente alla causa e alla sua diffusione e gli permisero di ricomporre tutti quei dissidi interni all’organizzazione inevitabili in condizioni di instabilità. Anche se ripagato vigliaccamente, fu generoso con i suoi avversari politici salvando più di qualcuno dalla vergogna dal disonore e dalla galera.
Con la reazione del 1818, don Pietro, che in quel periodo svolgeva il suo ministero religioso in Matino, venne arrestato e condotto ai ferri e a piedi a Lecce dove fu trattenuto per dieci giorni nelle prigioni del Castello, quindi nottetempo scortato da numerosa cavalleria tradotto in S. Cataldo e da qui imbarcato con altri prigionieri politici per l’isola di Favignana. Don Pietro Valzani rimase nelle prigioni dell’isola per due anni e sottoposto dai suoi aguzzini ad ogni sorta di angheria e vessazione tanto che dal carcere, così come avvenne per tanti patrioti, la salute ne uscì minata.
Nel 1820, con la momentanea concessione della Costituzione, don Pietro fu rimesso in libertà e potè rientrare a Surbo dove, dimentico delle sofferenze subite durante il periodo di detenzione, tornò a parlare, al popolo, dei suoi ideali di unità nazionale, giustizia sociale ed uguaglianza. Abolita la Costituzione e ritornata la reazione ricominciarono, per il povero arciprete Valzani, le vessazioni da parte del Borbone ma ormai con le forze ridotte al minimo e con il corpo minato dalla malattia incombente, niente più potè quel senso profondo di giustizia e libertà proprio del suo spirito. Si spense per emottisi il 13 febbraio del 1829 a soli 54 anni di età.
Di lui rimangono negli archivi, a memoria imperitura, i verbali degli interrogatori e dei processi subiti, dai quali si evincono le iniquità a cui fu sottoposto e le spiccate idee di uguaglianza, di giustizia sociale e libertà che lo distinsero.