di Federica Castellana
Dopo quasi un decennio caratterizzato da tassi di crescita del 7-9% trascinati dal boom delle esportazioni, l’Argentina sta infatti sperimentando una sensibile battuta d’arresto dovuta non solo al dilagare della crisi internazionale, ma anche all’affiorare di varie debolezze strutturali: la forte dipendenza dal mercato delle commodities nazionali (soia, mais, frumento, cereali, carne bovina insieme a gas naturale e petrolio) ed i classici effetti distorsivi del protezionismo commerciale e valutario degli ultimi anni. Del resto, misure restrittive come la sostituzione delle importazioni con la produzione domestica, il divieto per le multinazionali di esportare gli utili e la limitazione sugli acquisti di dollari ed euro implicano una certa rigidità che ha inevitabilmente frenato i consumi e gli investimenti extraterritoriali nonché i livelli di produttività aziendali. Ma il principale problema resta l’altissima inflazione, al 10% secondo i dati ufficiali dell’INDEC, l’Istituto nazionale di statistica, anche se la realtà quotidiana e le stime di numerosi analisti indipendenti parlano di un incremento annuo dei prezzi vicino addirittura al 23-25%, con esplicite e ripetute accuse di falsificazione dei dati rivolte dal Fondo Monetario Internazionale al governo di Buenos Aires. Non mancano poi episodi di corruzione politica e nemmeno la ristrutturazione del debito pubblico è rimasta esente da complicazioni: di recente un giudice di New York ha condannato lo Stato argentino a rimborsare per 1,3 miliardi di dollari i possessori di tango bond, appartenenti a fondi speculativi statunitensi, che all’indomani del default del 2001 non aderirono ai nuovi titoli di stato ristrutturati.
A conti fatti, la gestione economica e finanziaria del Paese attuata dal 2003 dai coniugi Néstor e Cristina Kirchner non sembra aver prodotto risultati brillanti e soprattutto la scarsa trasparenza dell’amministrazione ha provocato un grave calo della fiducia internazionale, in un clima già di generale diffidenza. Tra l’altro la strategia neodirigista argentina punta all’autosufficienza energetica e al ritorno all’esportazione netta di petrolio ed idrocarburi: e in quest’ottica, che rappresenta un fattore chiave anche nella questione Falkland/Malvinas, le ultime mosse della Casa Rosada hanno generato tensioni persino nei rapporti pacifici con la ex madrepatria Spagna.
La vicenda Repsol-Ypf
Ad aprile 2012 ha suscitato particolare clamore l’annuncio della presidente Kirchner di nazionalizzare la quota della compagnia petrolifera Ypf controllata dal colosso spagnolo Repsol. A fare notizia non è stato tanto il ripristino della proprietà statale sulle risorse energetiche (che in America Latina è la norma), quanto invece i toni aggressivi e polemici di un’operazione portata avanti nei confronti di un Paese già sufficientemente in difficoltà, dotato di limitati strumenti di difesa e alle prese con il costante rischio di contagiare l’intera Europa.
Istituita nel 1922 dall’accorpamento delle diverse compagnie straniere presenti sul territorio argentino, la Ypf (Yacimientos Petrolíferos Fiscales) è stata una delle prime società petrolifere di Stato nel mondo, privatizzata nel 1992 durante l’amministrazione Menem; l’iberica Repsol ne ha acquistato il pacchetto azionario di maggioranza (57%) nel 1999. La recente decisione della Presidenta, sostenuta dai governatori delle province concessionarie, è arrivata dopo mesi di pressioni e attacchi per mancanza di adeguati investimenti e calo della produzione con conseguente ricorso alle importazioni estere di petrolio e danni alla bilancia dei pagamenti.
Il progetto di nazionalizzazione parziale dell’Ypf, approvato poi a grande maggioranza da entrambi i rami del Congresso, ha portato a un esproprio drastico ai danni della Repsol, la cui quota è passata dal 57 al 6%, con il 51% di azioni Ypf diventate così di proprietà dello Stato argentino e delle province produttrici di petrolio. Le reazioni oltre atlantico sono state immediate. Repsol ha subito perso il 5,4% in Borsa e ha richiesto un indennizzo di 8 miliardi di euro a titolo di risarcimento. Esponenti del governo Rajoy (i Ministri degli Esteri García-Margallo e dell’Industria Soria) hanno definito “l’aggressione alla Repsol un atto di ostilità contro la Spagna” e di “rottura della relazione di amicizia e cordialità tra i due Paesi”, annunciando “misure opportune, chiare e incisive” contro un’azione ritenuta discriminatoria in quanto ha colpito solo le azioni spagnole. Anche Bruxelles si è fatta sentire: oltre a esprimere “preoccupazione e delusione” e ribadire il sostegno a Madrid, l’Ue ha sospeso una commissione bilaterale euro-argentina e revocato una serie di preferenze doganali. Tuttavia si è trattato di una rappresaglia debole, accompagnata da posizioni fredde di Stati Uniti, FMI e G20 e contrastata dal forte appoggio all’Argentina espresso dagli altri Paesi latinoamericani e dalla Cina.
Anche in questo caso, comunque, l’iniziativa della Kirchner si è rivelata una scelta vincente soprattutto in senso politico, dal momento che è riuscita a riunire una buona dose di consenso popolare intorno a un tema caldo come il controllo nazionale esclusivo delle risorse naturali.
Tentativi di conexión
Nonostante lo smacco Repsol-Ypf, Madrid ha deciso di non voltare completamente le spalle a Buenos Aires e di recuperare invece il prestigioso ruolo di ponte strategico tra Europa e America Latina. La Spagna infatti, grande terra di immigrazione dell’ultimo decennio, nel 2011 ha registrato per la prima volta un saldo migratorio negativo, con oltre 450 mila persone tra cittadini spagnoli e non, emigrati principalmente in Marocco, Europa centrale e proprio Sudamerica (quasi 10 mila), spesso dotati di formazione medio-alta. Inoltre, molte sono le imprese spagnole presenti da tempo in Argentina tra cui Telefónica, Endesa (energia elettrica) e le banche Santander e BBVA.
Il XXII Vertice Ibero-Americano tenutosi a Cadice lo scorso novembre sarebbe stato una buona occasione per riprendere il dialogo, ma la presidente Kirchner all’ultimo ha dato forfait (ufficialmente per “motivi di salute”). Al summit il governo Rajoy ha chiesto ai partner d’oltreoceano maggiore cooperazione in termini sia di flussi migratori che di investimenti: da un lato, agevolando l’inserimento lavorativo di chi arriva dalla Spagna; dall’altro, definendo regole meno rigide nella gestione degli utili delle imprese spagnole ed esortando coraggiosamente le nuove multinazionali sudamericane a investire in territorio spagnolo.
Allo stato attuale, quindi, Madrid sembra intenzionata a mantenere e a tutelare i suoi legami con una ex colonia redditizia, che malgrado le sue indubbie problematiche ha stime di crescita ben superiori a quelle del Vecchio continente (+3% del Pil per il 2013). La Spagna di oggi però è in una posizione troppo debole e non è in grado di presentarsi come una valida opportunità di sviluppo: non possiede, insomma, sufficiente appeal che richiami le attenzioni di un’Argentina sempre occupata in piani machiavellici su altri fronti.
* Federica Castellana è Dottoressa in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Studi Europei (Università di Bari)