Donald Wandrei – The Red Brain

Da Bloody Ivy
Howard Phillips Lovecraft and Donald Wandrei on the steps of Frank Belknap Long’s browstone in Brooklyn.

The red Brain (1924 – 25) è il primo racconto scritto da Donald Wandrei, il corrispondente di Lovecraft. Dopo averlo terminato, lo inviò a Lovecraft per il consueto giudizio e correzione e quindi lo spedì  a Farnsworth Wright, direttore di Weird Tales, che lo respinse. Lovecraft consigliò a Wandrei di lasciar “dormire” la storia per qualche mese, e quindi di rimandarla a Wright senza cambiare una virgola, ma sostenendo di averla completamente riscritta. Wandrei così fece, e si vide rispondere da Wright con una bella lettera nella quale si sosteneva che il racconto, dopo la rielaborazione era decisamente migliorato, per cui poteva pubblicarlo. Apparve sul numero di ottobre 1927 della rivista Weird Tales.

Ad una ad una, le pallide stelle del cielo si erano affievolite e si erano spente. Ad una ad una quelle luci fiammeggianti si erano affievolite e oscurate. Ad una ad una erano svanite per sempre, e al loro posto erano comparse chiazze d’inchiostro che oscuravano immense aree del cielo, un tempo luminoso di stelle.  

Gli anni erano passati, i secoli erano fuggiti, i millenni si erano accumulati formando milioni di anni, e anch’essi erano svaniti nell’oblio dell’eternità. La Terra era scomparsa. Il sole s’era raffreddato e indurito, e si era dissolto nella povere della sua tomba. Il sistema solare ed innumerevoli altri si erano disgregati ed erano spariti, ed il loro frammenti avevano gonfiato le nubi di polvere che sommergevano l’intero universo. nei milioni di anni trascorsi sospingendo ogni cosa verso l’inevitabile fine, gli enormi corpi celesti, un tempo innumerevoli, che avevano costellato il cielo volando nelle immensità incommensurabili dello spazio, erano diminuiti di numero e si erano disintegrati fino a quando i sudario nero del cielo appariva ormai interrotto solo a rari intervalli da fioche chiazze di luce… una luce sempre più debole e pallida.

Nessuno sapeva quando la polvere aveva incominciato a raccogliersi, ma lontano, nell’alba dimenticata dal temo, i mondi morti erano svaniti, non ricordati e non pianti. Quei mondi erano i nuclei della povere, Erano i progenitori della dissoluzione universale che ormai si avvicinava al compimento. Erano le stelle che per prime si erano esaurite ardendo, erano morte e si erano dissolte in miriadi di tomi. erano le escrescenze che per prime erano trapassate nel nulla in uno sbuffo di polvere.
Lentamente, le pire fioche si erano addensate trasformandosi i nuvole, le nuvole in mari, ed i mari in oceani mostruosi di polvere in lento movimento, proveniente dai mondi morti e morenti, da collisioni interstellari d’astri turbinanti, dalle meteore fulminee e dalle comete dalle lunghe code, che uscivano fiammeggiando dal vuoto e si lanciavano nell’abisso. 

La polvere si era estesa, incessantemente. La fioca luminosità dei cieli era divenuta ancora più fievole, via via che grandi chiazze nere apparivano lontano, nelle profondità dello spazio. In tutti i milioni, i miliardi, e i trilioni di anni che erano fuggiti nel passato, la polvere aveva continuato ad ammassarsi, e l’orda stellare era diminuita, C’era stato un tempo in ci l’universo consisteva di centinaia di milioni di stelle, pianeti e soli : ma erano effimeri come la vita od i sogni, e uno ad uno erano sbiaditi e svaniti.

I mondi più piccoli erano stati cancellati per primi: poi quelli via via più grandi, in un’ascesa ininterrotta fino ai giganti incontrollati che ruggivano la loro uria  e sfolgoravano candidi attraverso a polvere vittoriosa ed i regni della notte. l polvere cosmica non desisteva mai dalla sua guerra infernale e implacabile contro l’universo; soffocava i piccoli aeroliti; inghiottiva i satelliti indifesi; turbinava intorno alle comete che sfrecciavano da una nera estremità dell’universo all’altra, fiammeggiando di splendore, scavando vie di folle avventura tra infiniti privi d’orizzonti che la polvere già dominava; artigliava i pianeti e risucchiava il loro essere; lambiva, odiosa e minacciosa, i grandi monarchi, strappando loro terre e deserti.
Più densa, più densa, sempre più densa, divenne la polvere cosmica, fino a quando di giganti non poterono più osservarsi l’un l’altro sulle rotte traverso il vuoto. Essi tuonavano invece nella desolazione, solitari, disperati e perduti. Bruciavano la loro fulgida bellezza in una grandiosità solitaria. Scomparivano nella sconfitta e nella morte, egualmente solitarie. 

Tra tutte le stelle della schiera innumerevole che un tempo aveva screziato  i cieli, rimaneva soltanto Antares. Antares, la più immensa delle stelle, era l’unica rimasta; l’unico astro dell’universo, abitato dall’ultima razza che possedesse la coscienza e la vita. Quella razza, in preda ad un’angoscia disperata, aveva osservato l’oscurarsi del cielo, ed aveva contato con la meticolosità di un avaro le stelle che resistevano. Ogni stella che si smorzava era uno strazio per i cuori di quegli esseri; ognuna che cercava di lottare e veniva inghiottita dalla marea di polvere, aggiungeva una nuova strofe all’inno, all’indescrivibile melodia, al peana di dolore infinitamente mesto che rintoccava con solenne armonia in tutti i cuori della razza morente. 

Gli abitanti di Antares avevano edificato una grande cupola di cristallo intorno al loro mondo, per escludere la polvere e conservare l’atmosfera, e sotto quella cupola gli osservatori vegliavano in silenzio. Le ombre erano avanzate sempre più rapide dai lontani regni delle tenebre, sommergendo rapidamente le ultime stelle. Il compito degli astronomi era divenuto più agevole, ma era anche più triste di Antares: osservare la morte e l’oblio che stendevano un sudario di tenebra su tutto ciò che avrebbe dovuto essere. 

L’ultima stella, Mira, seconda solo ad Antares, era diventata pallida e gelida, aveva brillato più cupa… ed era svanita. Non c’era nulla in tutto lo spazio, tranne una distesa illimitata di polvere che si stendeva in ogni direzione: solo la polvere, e Antares. Gli astronomi non scrutavano più i cieli per scorgere ancora la stella morente prima che soccombesse. Non scrutavano più le distese superne… dovunque turbinava la polvere, avvolgendo lo spazio d’una tenebra soffocante. Un tempo, attraverso l’abisso, era stata disseminata una moltitudine di stelle morbosamente belle, bianche e lucenti, fioche… e adesso non c’erano più. Un tempo c’era la luce nel cielo… adesso non c’era più. Un tempo c’era una fievole fosforescenza nella volta celeste… adesso c’era un pesante sudario d’ebano, un regno d’oscurità privo di raggi, un nereggiare soffocante, eterno ed infinito. 

“Ci siamo radunati ancora in questa Sala della Nebbia, non nella speranza che sia stato trovato un rimedio, ma per decidere quale si per noi il modo migliore di morire. Ci siamo radunati, non nella vana speranza di poter dominare la polvere, ma di trionfarne anche se ne veniamo cancellati. Non possiamo vincere la lotta, possiamo solo affrontare la morte”.
L’oratore s’interruppe. Intorno a lui torreggiava una sala fatta di spazio. Lassù si stendeva un tetto indistinto i cui lati fluenti si fondevano nelle perdute lontananze del sogno, sostenuto da muri invisibili e dai possenti pilastri che salivano a lunghi intervalli dal liscio pavimento di marmo. Una leggera foschia sembrava aleggiare perpetuamente nell’aria, date le incommensurabili dimensioni del colosso architettonico. Indistintamente, in lontananza, l’oratore stava reclinato su un podio metallico, sopra il mare di esseri che gli stavano davanti. Ma in realtà non era un oratore, e non era neppure un essere simile a quelli che avevano abitato un tempo il mondo chiamato Terra.

L’evoluzione, date le insolite condizioni di Antares, era proceduta lungo varie direttrici completamente diverse da quelle seguite sui vari corpi celesti che avevano costellato i cieli quando il firmamento era cosparso di stelle, negli anni ormai perduti. Antares era il sole più immane che fosse scaturito dal caos primordiale. Quando si era raffreddato, l’aveva fatto assai più lentamente degli altri astri e, quando la vita vi aveva avuto inizio, si era assicurato un’esistenza non di migliaia, non di milioni, ma di miliardi di anni.
Quella vita, da quando aveva avuto inizio, era passata dalle forme più semplici all’era dei froci colossi della terraferma e, gradino per gradino, aveva asceso la scala. Le civiltà degli altri modi avevano raggiunto il loro culmine, e i mondi stessi erano divenuti freddi ed inerti, all’epoca in cui aveva incominciato ad esistere la possente civiltà di Antares. Poi la stella aveva attraversato un periodo di guerre, fino a quando vennero prodotti flagelli distruttivi così terrificanti e spaventosi che, nella guerra dei Due Giorni, sette degli otto miliardi e mezzo di abitanti erano stati massacrati. Quei due giorni di carneficina avevano posto fine per eoni alle attività belliche.

Da allora aveva avuto inizio un’età dell’oro. Le menti degli abitanti di Antares erano divenute sempre più grandi, e il loro corpi, proporzionalmente sempre più piccoli, fino a quando il ciclo si era completato. Ognuno degli esseri di fronte all’oratore era un mostruoso mucchio di viscidume nero, ogni massa era un cervello enorme, una cosa asessuata che viveva per il pensiero.
Molto tempo prima, si era scoperto che la vita poteva essere creata artificialmente nei tessuti formati in laboratorio dai chimici. Il sesso era stato così eliminato, e gli abitanti di Antares non trascorrevano più il loro tempo prendendosi cura delle famiglie. Quasi tutte le innumerevoli ore così risparmiate vennero dedicate all’avanzamento scientifico, con il risultato che la stella aveva fatto un balzo in avanti, in un’era di progresso incomprensibile.

Gli esseri umani divenuti rapidamente cervelli, scoprirono che grazie allo sterminio dei parassiti e dei batteri di Antares, al mutamento della loro struttura organica, e alla volontà di vivere, si stavano avvicinando all’immortalità. Scoprirono i segreti del tempo e dello spazio; conobbero l’estensione dell’universo. appresero come lo spazio, nelle sue distese più remote, stava annientando se stesso. Appresero che la vita creava se stessa e controllava il periodo della propria durata. Seppero che, quando una vita stanca di esistere, si uccideva, era morta per sempre; non poteva rivivere mai più, perché la morte era il mutamento chimico definitivo della vita.

Horsehead Nebula
Hubble Heritage (STScI/AURA)

Queste erano le forme che si spandevano nell’immenso mare davanti all’oratore. Erano forme perché potevano assumere qualunque forma desiderassero. Le menti onnipotenti avevano il dominio assoluto su ciò che le costituiva. Quando i cervelli volevano viaggiare, si rilassavano dall’abituale semirigidità e fluivano da un luogo all’altro, come ruscelli d’inchiostro che precipitassero da una collina; quand’erano stanchi, si appiattivano in dischi; quando esponevano i loro pensieri, divenivano colonne torreggianti di rigido muco; e quando si perdevano nelle astrazioni, o in una piacevole contemplazione dei mondi creati nelle loro menti, in cui vagavano spesso, sembravano enormi sfere dormienti.  

Dall’oratore non era uscito il minimo suono, sebbene egli avesse comunicato i suoi pensieri all’assemblea senziente. I pensieri dei cervelli, quando le loro menti lo permettevano, si irradiavano istantaneamente a coloro che stavano intorno, come onde elettriche. Antares era un mondo di silenzio mai infranto.
I pensieri del Grande Cervello continuarono a fluire.
“Molto tempo fa, tutti noi abbiamo riconosciuto l’appressarsi della fine. Non potevamo far nulla. Non ha molta importanza naturalmente, perché l’esistenza è una cosa inutile che non aveva beneficio ad alcuno. Tuttavia, in quella riunione di un anno ormai dimenticato, chiedemmo a quanti erano disposti a farlo, di pensare a qualche possibile modo di salvare almeno la nostra stella, se non le altre. Non fu offerta alcuna ricompensa, poiché non esisteva un premio adeguato. Tutto ciò che il cervello avrebbe ricevuto sarebbe stato la gloria, l’onore spettanti ad uno dei più grandi di noi che mai fosse stato prodotto. E gli altri avrebbero ricevuto soltanto gli effetti di quella gloria, nella consapevolezza di avere vinto il Fato, allora ed ancora oggi considerato inesorabile; avremmo tratto piacere solo dal fatto che noi, creati da noi stessi e quasi supremi, ci eravamo resi supremi vincendo la minaccia più potente che mai abbia assalito la vita, al tempo e l’universo: la polvere cosmica. I nostri cervelli più intelligenti hanno pensato a quest’unico problema per indicibili milioni di anni. Hanno escluso dei loro pensieri tutto, eccettuato un quesito: come si può controllare la polvere? Essi hanno proposto innumerevoli piani, che sono stati scrupolosamente collaudati. E tutti sono falliti. Abbiamo lanciato nel vuoto folgori incontrollabili e lampi interplanetari di fiamma, nella speranza che fondessero masse di povere, formando nuovi mondi incandescenti. Abbiamo ancorato magneti enormi in tutto lo spazio, sperando che attirassero la polvere, lievemente magnetica, per solidificarla o sottrarla almeno in parte alle distese del nulla. Abbiamo causato perturbazioni spaventose facendo esplodere le nostre sostanze più potenti nelle zone intorno a noi, sperando di mettere violentemente in moto la polvere, affinché il caso fosse scosso dalle tempeste della creazione. Con i nostri raggi annientatori, abbiamo scavato sentieri di miliardi di chilometri attraverso la povere in crescita incessante. Abbiamo distrutto la vita su Betelgueuse e vi abbiamo installato titanici sviluppatori di vuoto, enormi macchine ronzanti che risucchiassero la polvere dallo spazio e l’ammucchiassero su quella stella. Abbiamo liberato quantità enormi di gas, li abbiamo incendiati, e abbiamo scagliato quei folli fuochi balenanti attraverso la povere. Spinti dalla disperazione, abbiamo persino richiesto l’aiuto dei Divoratori dell’Etere. Sì, abbiamo usato la nostra forza di volontà per ricacciare la polvere e si è ritirata per un momento, ha indugiato… e poi ha nuovamente drappeggiato il suo sudario di tenebra intorno allo spazio pervaso dalla paura e dagli incubi.”

In un orrore silenzioso, nell’immensa Sala della Nebbia volavano i pensieri del Grande Cervello.
“I nostri chimici, con una ostinazione accanita mai dimostrata prima, hanno dedicato il loro tempo alla produzione di super-cervelli, nella speranza di crearne uno che sapesse sconfiggere la polvere cosmica. Essi hanno mutato le sostanze chimiche usate nella nostra genesi; hanno fatto esperimenti con stampi e forme; hanno provato ogni risorsa. Con quale risultato? Ne sono uscite mostruosità deliranti, abominazioni fossi, orrori satanici e cose immonde e fameliche che ululavano selvaggiamente per gli innominabili, indescrivibili fantasmi che affollavano le loro menti. Noi li abbiamo uccisi per salvarci! E la povere ha continuato ad avanzare! Abbiamo fatto appello ad ogni cervello vivente affinché ci aiutasse. Nei secoli dimenticati e velati dal sogno, abbiamo invocato aiuto, in qualunque forma. Di tanto in tanto ci sono stati proposti piani, che per qualche tempo hanno causato tremendi danni alla polvere, ma che poi sono sempre falliti.
Il trionfo della polvere cosmica è ormai imminente. Resta così poco tempo, ormai, che i nostri sforzi saranno inevitabilmente vani. Ma oggi, nella speranza che qualche cervello, uno dei vecchi o uno dei nuovi, giganteschi, abbia scoperto una possibilità ancora intentata, abbiamo convocato questa riunione, la prima dopo oltre dedicimila anni.”

Il silenzio teso e vigile della sala si attenuò, poi si addolcì,  quando i pensieri del Grande Cervello terminarono di fluire. Le onde elettriche che avevano riempito la Sala della Nebbia ricaddero e, per qualche tempo, vi aleggiò una strana tranqullità. Ma la massa non era mai immobile; il mare davanti al podio si incresapava e si gonfiava, di tanto in tanto, quando lo percorrevano ondate di pensiero. Eppure nessun cervello si offrì di parlare, e la distesa fremente, con il trascorrere dei minuti, ridivenne tranquilla.
Il Grande Cervello ondeggiava sul podio in un’esile colonna, levandosi alto nell’aria; più e più volte fece girare lo sguardo sulla sala, scrutando tra le forme nella speranza di trovare, in mezzo a quelle migliaia, una che sapesse formulare una proposta. Ma i minuti passarono, e il tempo trascorse, senza nessuna reazione; allora la tristezza della fine immutabile s’insinuò nell’ultima razza. Ed i cervelli, immersi nella loro meditazione, videro la polvere premere contro il guscio vitreo di Antares in un trionfo beffardo.
Il Grande Cervello non si era aspettato alcuna risposta poiché ormai da secoli era considerato inutile combattere la polvere; e perciò; quando la sua aspettativa si realizzò, anche se non il suo desiderio, si rilassò e si lasciò cadere, per segnalare che la riunione era terminata.
Ma quel movimento era stato a malapena completato, quando nel centro del mare vi fu un moto violento; in un attimo una sezione si raccolse e si concentrò; come un getto d’acqua si avventò verso l’alto e si lanciò verso il tetto, fino a quando ondeggiò, sottile e tenue come una colonna di fumo, mentre la sommità del cervello scrutava dall’alto del soffitto semibuio.

“Io ho trovato un piano infallibile! Il Cervello Rosso ha vinto la polvere cosmica!”
Una tensione terribile s’impadronì dei cervelli, storditi dal grido che scendeva in silenzio nella Sala della Nebbia, fino alla tomba vuota e senza sogni del pavimento di marmo. Il Grande Cervello, che si era appena rilassato, si leò di nuovo. E con un bizzarro movimento vorticoso l’orda radunata ruotò improvvisamente.
Subito, il Cervello Rosso si librò lassù, al centro di un mare che era divenuto un anfiteatro: e tutti i cervelli guardarono verso il centro. L’attesa e la speranza represse elettrizzavano l’aria.
Il Cervello Rosso era una delle creazioni più recendi dei chimici: il risultato di ujo degli esperimenti per produrre cervelli più perfetti. In precedenza, erano stati tutti neri; ma, forse a causa d’impurità contenute nelle sostanze chimiche, questo aveva un colore rosso cupo, estremamente scuro. Era considerato con meraviglia dai suoi compagni, soprattutto da quando avevano scoperto di non riuscire ad afferrare molti dei suoi pensieri. Ciò che esso permetteva agli altri di conoscere, di ciò che passava entro di lui, era in gran parte incomprensibile. Nessuno sapeva come giudicare il Cervello Rosso: ma da lui ci si aspettava molto.
Perciò, quando quest’ultimo lanciò il suo annuncio, gli altri formarono intorno un enorme cerchio, con le menti passive, aperte per ricevere la spiegazione. Così stavano reclinati, completamente impreparati a ciò che seguì.
Perché, mentre stava librato nell’aria, il Cervello Rosso cominciò a ondeggiare lentamente, irrequieto, e, mentre ondeggiava, i suoi pensieri s’irradiavano come una cantilena ritmica. Torreggiava altissimo sopra di loro, in una colonna liscia e sottile, la cui estremità superiore si muoveva sempre più rapida mentre brividi nervosi ne scuotevano l’intera lunghezza. E la cantilena aliena divenne più forte, sempre più forrte, sino a quando si trasformò in una peana ditirambico alla bellezza del passato, alla gloria del presente, allo splendore del futuro. E il canto divenno una gioia furiosa, una ripetizione di concetti come questo:
“Il Cervello Rosso ha vinto la plvere. Altri hanno fallito, ma lui no. Suonate il nostro inno in onore del Cervello Rosso, perché ha trionfato. Ponetelo alla vostra testa, poiché ha sconfitto la polvere. Esaltate colui che ha dimostrato di essere il più grande di tutti. Venerate colui che è più grande di Antares, più grande della polvere cosmica, più grande dell’universo”.
All’improvviso s’interruppe. Perplessi e sbigottiti, i cervelli levarono gli sguardi verso di lui. Il Cervello Rosso aveva interrotto per un momento le sue oscillazioni ritimice, e li aveva esclusi tutti dai suoi pensiri. Ma per l’intera sua lunghezza ebbe inizio una rotazione, fino a quando cominciò a vorticare con rapidità incredibile. Da esso prese bruscamente ad irradiarsi qualcosa di antagonistico. E, prima che i Cervelli potessoero comprendere la situazione, prima che potessero proteggersi chiudendo le proprie menti, gli impulsi della volontà del Cervello Rosso, carichi di odio e di morte, presero a pulsare intorno a loro, a penetrare nei loro esseri. Come un turbine roteava il Cervello Rosso, irradiando violentemente il suo odio. Come palloni semisgonfi, gli altri cervelli gli stavano prima distesi intorno; come bolle di vetro in fase di raffreddamento, si tesero per un secondo, e come palloni bucati, mentre i loro pensieri e con essi le loro vite venivano annientati – poiché il pensiero era vita – essi si appiattirono,  all’istante, dissolvendosi in pozzanghere di viscidume evanescente. A decine e a centinaia essi ricaddero, distrutti dai pensieri tempestosi e irrefrenabili del Cervello Rosso, che riempivano la sala; a gruppi, a sezioni, a strisce tutto intorno all’ampio cerchio, caddero i cervelli annientati in quell’unico momento di avventatezza, mentre le pozze di denso inchiostro nero si raccoglievano, confluivano, strisciavano avanzando, e diventavano fiumi di pece che scorrevano sul pavimento marmoreo con un serico fruscio sommerso.
La speranza dell’universo era stata riposta nel Cervello Rosso.
Ma il Cervello Rosso era pazzo.

da LOVECRAFT – Le storie dell’orrore puro: l’incubo – Volume Secondo (da cofanetto di 5 volumi)
A cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco – Grandi Tascabili Economici Newton
(edizione non più disponibile)

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