Donato Salzarulo, Dittico delle ceneri

Creato il 12 maggio 2011 da Fabry2010

Il vestito vuoto

Era già sconnessa e fradicia – poco
lontano un’altra aveva il disegno intatto –
e mio padre riemergeva vestito vuoto,
lacerato: qui le dita dei piedi, qui
il femore, le costole ad una ad una,
le clavicole, il teschio. Tutto confuso
con la terra. Tutto dello stesso colore
scuro. Immaginavo un odore marcio,
di liquame. Annusavo, invece, l’humus
di un bosco, l’uomo.

Sotto il cuscino dovrebbero esserci
diecimila lire, sostiene Giuseppina,
gliele misi per pagare l’eventuale
pedaggio. – Il necroforo sorride: – Ah, sì!
Allora devo cercarle. – E dopo un po’
trova, infatti, la filigrana d’argento,
quanto resta di un biglietto di carta.
La consorte contenta recupera
il filo per farne il suo portafortuna.
Ha sempre creduto che fosse mio padre
il suo nume tutelare. E mescola
felicemente morti e vivi.

26 settembre 2002

*

Le lettere d’ottone

Sprofondata nella terra, tra mille
radici e quasi a contatto con le vene
dell’acqua, mia madre non voleva
più tornare alla luce. Anche in questo
diversa.
Quando finalmente Abdul,
un somalo alto come una betulla,
scopre la linea della bara, il pietoso
lavoro si fa lento e attento.
Il primo a rifarsi vivo è il femore,
prima l’uno, poi l’altro. Tibia e perone
sono nelle calze di nylon insieme
alle falangi in frantumi dei piedi.
Si riconosce un angolo di bacino
e raccolte nella sottoveste – dio
se il nylon resiste! – le costole
della cassa toracica scomposta.
Abdul cerca la testa, il cranio
spezzato in tavolette confuse
col legno. Pulisce e ripone tutto
con delicatezza nella cassetta
sul lenzuolino bianco. Ricopre
con un altro lenzuolo e chiude
per sempre.
Mentre Abdul ripone
mia madre nella celletta sopra
mio padre, Giuseppina distribuisce
le lettere d’ottone del suo nome.
La E la prende Elisa,
un’altra E Michela, la L Lucia,
la P Marzia… (Domenico è in Qatar).
Purtroppo, nel disfare il monumento,
ne sono andate perse
diverse.

Al termine mio fratello – forse per l’ansia
svegliatosi stamattina insolitamente tardi -
recupera la rosa cresciuta sulla tomba
per trapiantarla nel giardino.
Mia sorella conserva le parole
scritte in sua memoria. Io ho il compito
di scriverne altre, ereditando la fama
di parlatore instancabile
di mia madre.

29 marzo 2011

* * *

Nota
di Giorgio Morale

La pacata affabulazione di questo Dittico delle ceneri di Donato Salzarulo ha un effetto straniante, come nella Sepoltura di Santa Lucia del Caravaggio la pulizia della scrittura e il realismo con cui è narrata la riesumazione dei resti del padre e della madre colloca le scene in una quotidianità antipatetica e ne fa un esercizio spirituale di meditazione sulla morte.

Nella prima strofa della prima poesia, Il vestito nuovo, c’è il piano naturale dell’evento, il corpo e la sua fisica. L’intimità e il coinvolgimento sono dati dalla ripresa ravvicinata che si sofferma sui dettagli che esaltano i sensi: la vista – le dita, il femore, le costole, il teschio – e l’olfatto – l’odore. È tutto confuso, sono i sensi nella loro “picciola vigilia” a distinguere i vivi dai morti. La mente è turbata ed è l’idea della morte, più che la morte, a impressionarla: essa immagina un odore marcio, ma i sensi subentrano a cogliere l’odore buono della terra che vive e si perpetua.

Nella seconda strofa, messa a tacere la mente, emergono il ricordo e le relazioni umane, segnalate dalle brevi ma intense battute di dialogo. Il richiamo all’obolo per il pedaggio per l’aldilà è spogliato di ogni tono classico ed erudito e diventa un gesto affettuoso. Non c’è fretta nel necroforo che sorride e cerca quel che rimane delle diecimila lire affinché la consorte possa farne un amuleto. Un amuleto che conferma la foscoliana “eredità d’affetti” e la “corrispondenza d’amorosi sensi”. Anche qui, come nella prima strofa, c’è un movimento ascensionale che conclude la quête con il ritrovamento destinato a fornire un sostegno alla memoria. Ritorna la mescolanza tra morti e vivi, ma stavolta come conquista spirituale della coscienza, come “celeste dote” degli umani che istituisce una circolarità tra l’estinto e noi.

La seconda poesia del dittico, Le lettere d’ottone, scritta a nove anni di distanza, è memore della prima, come se le parole e i gesti obbedissero a una ritualità. Gli stessi dettagli, femore, tibia, perone, falangi, costole, cranio. Le difficoltà dell’operazione sembrano confarsi all’identità della defunta, ne confermano la diversità. Anche qui la gentilezza del necroforo, la precisione e la pulizia dei movimenti. Le lettere d’ottone del suo nome sono un resto che viene diviso tra i familiari a perpetuare la memoria. Dove mancano le lettere, soccorre la scrittura del poeta: come sempre nella poesia, la parola continua a parlare oltre la cenere.



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