Donato Salzarulo, “Meteo”: le previsioni della poesia

Creato il 22 giugno 2011 da Fabry2010

Una lettura di Meteo di Andrea Zanzotto
di Donato Salzarulo

1. Innanzitutto il titolo. Tratto di filato dalle note rubriche televisive di previsioni del tempo. Ma anche ME-TEO, ME-DIO, conoscendo il presupposto teorico di base della ricerca zanzottiana che, a partire da La Beltà, istituisce il significante come produttore e depositario in proprio di senso. Evidente l’intento di instaurare un legame tra l’atto poetico e quello scientifico-conoscitivo del fare previsioni. Poesia come meteorologia, quindi. Come presa diretta, dal vivo, live delle alte e basse pressioni affettivo-sociali, dei loro nuclei di condensazione, della loro distribuzione, dei loro moti e precipitazioni.

Poi la Nota in fondo, di pagina 81

«Questa silloge vuol essere soltanto uno specimen di lavori in corso, che hanno un’estensione più ampia. Si tratta quasi sempre di ‘incerti frammenti’, risalenti a tutto il periodo successivo e in parte temporaneo a Idioma (1986). Non tutti sono datati e comunque sono qui organizzati provvisoriamente per temi e non secondo una sequenza temporale precisa, ma forse ‘metereologica’ ».

Il lettore di Zanzotto è ormai abituato a queste “note che fanno testo”. Ne ha incontrate di simili sia nella prima raccolta della “pseudo-trilogia”, Il Galateo in Bosco, che in Fosfeni e in Idioma. Sebbene qui l’autore usi il singolare, non ne appare mutata la funzione. La Nota, più che consentire una maggiore intelligibilità dei testi antologizzati e, per l’occasione, offerti come campioni o prove di lavori in corso, ne incrementa le ambiguità.

«La retorica, così densa di reticenze», sulla quale aveva già richiamato l’attenzione Gian
Mario Villalta nella sua lettura della trilogia, non è scomparsa e altrettanto dicasi della
riappropriazione”, a livello «autoermeneutico, di quanto l’opera espone a ‘chiunque’».
(Cfr. Gian Mario Villalta, La costanza del Vocativo, Guerini e Associati, 1992, pp. 45-52)

2. Dalla Nota si apprende:
a) Lo scopo di questa raccolta: offrire un saggio di lavori in corso.

b) La loro estensione molto più ampia; ragion per cui una zona del complesso poetico prodotta dal 1985 (è la data indicata alla fine del testo Leggende, pag. 24) ad oggi rimane ignota al lettore. Ovvie le domande: perché limitarsi ad un’anticipazione? Strategia editoriale? Autopromozione? Gioco a tener desta l’attesa? Volontà d’imprimere al proprio tessuto poetico il carattere di un’esplorazione?

Probabilmente tutte queste cose insieme.

Così, se da un lato si legittimano e si rendono attendibili i registri linguistici e i nuclei tematici presenti in Meteo, dall’altro si annuncia che vasto rimane l’inedito, il terreno poetico germogliato e ancora ignoto.

Giustamente Graziella Spampinato, che recentemente ha dedicato a Zanzotto un importante studio, ha parlato di “non-raccolta”, di “visione al microscopio di una cellula vivente della poesia zanzottiana”, così come ai tempi della trilogia si ebbe a che fare con una pseudo-trilogia.

c) La natura di queste prove: si tratta quasi sempre di testi qualificati dall’autore come “incerti frammenti”. Definizione estesa in Nota a quasi tutte, mentre all’interno del testo viene espressamente attribuita a quattro composizioni su venti: Lanugini, Altri papaveri, Tempeste e nequizie equinoziali, Topinambur, datate tutte in un arco di tempo che va dal 1993 al 1995.

La loro natura di frammenti indica la persistenza nella produzione poetica zanzottiana del modello petrarchesco. Si ricordi che il titolo autentico dato da Petrarca al suo Canzoniere era: Francisci Petrarche laureati poete Rerum vulgarium fragmenta.

I manuali letterari insegnano che questo riferimento ai frammenti allude innanzi tutto al carattere della narrazione, la cui trama non può essere ricomposta e ricondotta ad unità. Ogni frammento è autonomo ed ogni pezzo corrisponde a singole pulsioni, esperienze, passioni della personalità del poeta, cocci lacerati di identità diverse nel tempo, costruzioni molteplici dell’Io ora fra di loro contrastanti, ora conviventi.

Si rileggano a questo proposito, le Note zanzottiane che accompagnavano Idioma:

«La presente raccolta di versi rientra in un gruppo che comprende anche Il Galateo in Bosco e Fosfeni. Essa è in parte contemporanea a quei libri (1975-1982), alcuni componimenti sono del 1983-84.

Nell’insieme si tratta di una peseudo-trilogia: momenti non cronologici di uno stesso lavoro, che rinviano l’uno all’altro a partire da qualunque di essi, anche se in una certa discontinuità, e persino sconfessione reciproca». (Idioma, pag. 113)

Rinvio l’un all’altro, discontinuità, sconfessione reciproca. Il ribadire il carattere quasi sempre di frammenti di questi testi significa proprio sottolineare come non siano mutate le assunzioni del poeta rispetto al suo fare poetico, anche se la loro qualifica di “incerti” e il “quasi sempre” inducono a pensare che qualche volta i frammenti non siano più tali. Non è un caso che qualche recensore abbia definito il libro, un “poemetto”. (N. Gardini, Gli incerti segni della poesia, in “Poesia”, n. 97, 1996, pp. 21)

Silloge – specimen, non raccolta, poemetto. Si scelga per Meteo l’uno o l’altra di queste definizioni, non muta il rapporto che, nel complesso della sua opera, il poeta intrattiene con le ragioni e l’atto dello scrivere versi. Non muta quella che Anceschi chiamerebbe poetica; l’insieme cioè, delle riflessioni che illuminano l’atto e lo sostengono.

Si è detto del modello petrarchesco. E’ istanza quanto mai operativa che induce Zanzotto «alla costruzione di un ideale libro unico, un ‘canzoniere’ di un impianto petrarchesco, progetto costantemente in fieri eppure circolarmente compiuto in ogni suo momento. Il procedere per progressivi ‘allargamenti’ o ‘sprofondamenti’ di un orizzonte in cui tout se tient con mirabile coerenza, è la più macroscopica delle particolarità di Zanzotto, già indicata da Contini quando, interpretando il giudizio di Montale, definì

“la forma di associazione (in senso tecnico) per iterazione e variazione che rappresenta il tipico enunciato metonimico’ del poeta… La base di questo movimento ruotante, o ‘succhiellante’, cresciuto su domande lanciate ‘altrove’ che finiscono per ‘auto rispondersi’ molti anni dopo, è l’ essenza stessa della natura ‘biologale’ della poesia di Zanzotto» (G. Spampinato, La musa interrogata, Hefti, Milano, 1996, pp. 131-2)

d) Sul totale di 20 testi prelevati come campione sette sono senza data, uno è del 1985, due del 1986-87, due del 1988? (col punto interrogativo), uno del 1989, uno è “variante 1990”, uno è degli “anni 91-93”, uno “incerti frammenti1993-95”. Gli ultimi due infine, sono datati “16 buiogiugno199… (Stagione delle piogge)” e “Incerti frammenti agostobre1995”. Una datazione così singolare ha probabilmente uno scopo duplice: da un lato collocare, comunque, la produzione poetica in un periodo storico, far sentire la forza del contesto; dall’altro indicare il particolare uso che viene fatto del tempo. Esso serve alla lettura, all’autointerpretazione, all’autocritica. Si è di fronte ad una specie di doppio lavoro: uno di ‘creazione’ dei testi, l’altro di ‘adattamento’.

L’organizzazione dei componimenti (“provvisoriamente per temi”), la sequenza proposta (non cronologica, ma “forse metereologica”) struttura il libro in una successione di per sé significante. Ritorna ancora una volta la particolarità della produzione poetica zanzottiana:

«Nella sua poesia vige una compresenzialità temporale, o una compenetrazione spaziale, tale da escludere qualsiasi superamento dialettico, qualsiasi vettorialità univocamente progressiva. Ogni suo vient-de-paraitre tende a incorporarsi ai testi già esistenti, co-implicandoli, ri-assumendoli. Nulla è lasciato alle spalle; non esiste una pluralità di testi interdipendenti, ma piuttosto un unico testo coagulato in diversi ‘zoccoli’ linguistici e tematici, in mobili ‘pendolarità’ che le raccolte, o le loro eventuali sezioni, non pretendono d’irrigidire in argini temporali” (G. Spampinato, op. cit., pag. 10)

e) I testi antologizzati, sottolinea la Nota zanzottiana, sono «organizzati provvisoriamente per temi e non secondo una sequenza temporale precisa, ma forse ‘meteorologica’».
Al di là della consueta presa di distanza da posizioni definite una volta per tutte, il criterio d’ordine utilizzato è abbastanza chiaro: le venti poesie offerte in assaggio si susseguono una dopo l’altra secondo una combinazione avente a che fare più con lo studio del tempo atmosferico che con quello cronologico.

Prendendo sul serio la metafora, si tratterebbe, allora, di pensare alle poesie da un lato come a fenomeni naturali (non dissimili da quelli noti coi nomi di sole, pioggia, gelo, nuvole, grandine, neve, tempesta), dall’altro come a mappe culturali, carte meteorologiche di una lingua capace di indicare le alte e basse pressioni emotivo-sociali, di misurare le temperature delle relazioni umane, di individuare le direzioni dei venti interpersonali.

3. ’Scusatemi, sono qui ancora
coi miei piedini di gocce come ogni sera’
dice, di soppiatto arrivata
la compulsionale ventata di buiogiugno.

*
Tic tic tic, non di più: goccerelle rade
e dolci che stanno arrivando stasera
nella sera di buiogiugno: sgradite.
(Meteo, pag. 27)

Questi frammenti, tratti dalla Stagione delle piogge, dicono una lingua diretta, affettuosa e vezzeggiativa, le cui parole quasi fanno perdere alla compulsionale ventata il carattere di movimento esterno di massa d’aria improvvisa e sospingente. Il quotidiano appuntamento serale l’ha resa familiare; è diventata una bambina educata e gentile, le piccole gocce dei suoi piedini, per quanto sgradite, si sono fatte rade e dolci. Le spinte esterne della ventata appaiono fuse con le pulsioni interne della voce poetante (com-pulsionale), le goccerelle somigliano tanto ai frammenti di poesia depositate sulla carta.

Falsa è quella gentilezza l’
espressione bambola, tra finte
e tracotanze sottilissime. Taglia corto
un ultimo far-del-sole.

I frammenti si animano, dialogando tra di loro, smascherano comportamenti. A quest’ultimo far-del-sole piace arrivare in fretta alla conclusione, sia del tramonto serale che del discorso. Per lui è una gentilezza falsa quella della ventata. E’ insincero anche il linguaggio carezzevole. La poesia-bambina con le sue goccerelle e i suoi piedini si muove tra simulazioni ed insolenze acutissime.

Sono qui ancora, deh, vi prego, non odiatemi?
fa la prima pioggia del sonno di buiogiugno -
che dietro si trascina
poi tutto una Caina
ogni dì, fino a qui

TUONA -
Sia pure in bisbigli, confessa e poi
Anche tu, allora,
sprizzi del vermo reo che il mondo fora.

L’ultimo verso, come l’autore annota a piè di pagina, è tratto dal trentaquattresimo canto dell’Inferno dantesco e conclude interrogativamente la scenetta imbastita sulla pagina.

La voce poetante, dopo aver montato il testo in terza persona, per diciotto versi, con schegge di dialogo diretto e di descrizioni-riflessioni, in clausola, si rivolge direttamente alla poesia-pioggina per chiederle, con le parole autorevoli del poeta fiorentino, se anch’essa non sia un getto sottile e intenso del verme malvagio che buca il mondo.

La poesia-pioggia appare, allora, dubbiosa sulla possibilità e capacità di darsi un ordine diverso dalla pioggia-mondo. Si fa piccina, bambola. Bisbiglia, non vuole essere odiata, ma si trascina dietro tutta una Caina.

In questi frammenti, e in altri, Zanzotto ripete, come direbbe Fortini, «l’eterna autocelebrazione crepuscolare della poesia» in contraddizione con l’eroismo di martire e testimone di altri versi. Se la lexis di Meteo bamboleggia e dichiara, sia pure fra mille esitazioni e simulazioni, i suoi ‘buchi’ crepuscolari, appaiono comprensibili, anche se non condivisibili, le seguenti affermazioni di Gardini:

«La meteorologia zanzottiana… elevata a sistema semiotico per eccellenza, a linguaggio universale, non darà alcuna divinazione: i segnali, affievoliti in bip insignificanti, hanno cessato d’essere pur solo indizi, preannunciando non altro che il loro fallimento; identificano un generale stato d’allarme che non insegna a conoscere il futuro per intelligenza del presente. La malattia si è ridotta tutta a continuo sintomo. Il futuro è già accaduto. La natura è già storia. I fenomeni avvengono fuori da qualsiasi dicibilità: impossibile sia prevederli, sia descriverli; impossibile interpretarli.» (N. Gardini, art. cit., pag. 21)

D’accordo. Per la poesia-meteorologia le divinazioni d’epoca virgiliana sono forse eccessive, ma che ad essa non sia concessa neppure la più laica e neutra previsione settimanale o giornaliera di cui beneficiano i generali dell’aereonautica è tesi esagerata e indimostrabile.

Del resto, se il futuro è già accaduto, è improbabile che possa essere tutto già accaduto. Se così fosse, infatti, la dicibilità di fenomeni o avvenimenti, per quanto noiosa sarebbe facilitata: cos’altro resterebbe da prevedere in un mondo in cui tutto è già accaduto? L’atto, più che possibile o impossibile, sarebbe inutile e insensato. Inoltre, venendo a coincidere il già accaduto col già noto (almeno in parte), il descrivere e l’interpretare potranno risultare inadeguati, ma certamente non impossibili. Oltre che esagerato, il nichilismo di Gardini è intimamente contraddittorio.

Nelle pagine di Meteo, invece, è possibile leggere che quel «giallime di solicini in sé perfetti», rappresentati dai denti di leone, subisce «eleganti metamorfosi». E’ ciò che accade al giallime degli esseri umani. In sé, forse, non altrettanto perfetti ma capaci di storie e di storia. Il paesaggio tratteggiato ed animato da queste cellule poetiche non è idilliaco. E’ “eroinizzato e slombato”. La “grigità dei prati” è violenta. I papaveri sono “sudori e spia / di chissà quale irrotta malattia”. Il tramonto ha un “acido spray”, l’orizzonte “acide radici”. La luce o è caduta in “vibratili trappole” o si affida a un “sordo movimento”. I molti infiniti sono “dimentichi, intontiti”. I globi dei denti di leoni sono “incerti del loro stesso esistere”. Insomma, “sangue e pus”, energia e patologia, circolante biologia tragica.

Pure si danno ancora “ologrammi di estreme matesi”. Pure è possibile imbattersi in poesie-vitalbe superflue, liete solo “di-pur-essere” e tuttavia ostinate nel loro “accanito raccogliersi in luogo”, nella loro intensa capacità di testimonianza. E’ possibile resistere, produrre “evoluzioni verso invisibili / prove finali”, librarsi “verso aldilà / impossibili eppure immediati”.

Nel Paese dei balocchi, in un una realtà sociale tragicamente regredita al consumismo infantile delle immagini vomitate dal tubo catodico, schiacciata sul tempo ciclico della natura, sulla meteorologia del bimbo-grandine dai piedini di gocce, l’elegante metamorfosi intravista da Zanzotto per sé stesso e per i suoi lettori, è forse concentrata qui: nel tentativo di indirizzare la lingua poetica verso un’estrema matesi. Come dire, a mali estremi, estremi apprendimenti.

Il Meteo della poesia trasmette un avviso di tempesta ai naviganti. Questi, costretti a subire l’iniziativa del tempo-realtà, vivono – ne siano consapevoli o meno – una situazione di emergenza protratta. La bufera è già arrivata. In circostanze simili, resistere e conservarsi è più che un dovere. E’ una necessità. Come farlo, si può imparare dalle disfatte vitalbe, “mai stanche di soffrire, di stranirsi, di giocarsi / l’ultimo filo”.

Sotto questo profilo è senz’altro giustificata la sensazione di Gianluigi Simonetti di una “realtà che sembra schiacciare la forma” per “ridurla definitivamente a lingua privata, a ‘idiozia’ di cui la nevrosi è meno la causa che il tema”. Ma pensiamo di non dover sottovalutare le risorse di questa ‘idiozia’, di questo radicalizzare proprio a partire dalle macerie, dal ‘disfacimento’.

4. Accettando l’ipotesi di un’omogeneità di fondo (di temi e stilemi) dei testi raccolti, appare opportuna, a questo punto, una lettura più ravvicinata di qualcuno di essi. Si può provare con Live per la sua collocazione strategica (in apertura di libro) e per la sua veste grafica (si presenta infatti come un autografo).

Live
Sangue e pus, e dovunque le superflue
superfluenti vitalbe che parassitano gli occhi;
un teleschermo, fuori tempo massimo,
Dirette erutta e Balocchi

Sul piano metrico i versi uno e tre sono endecasillabi sdruccioli, il quarto è un ottonario e il secondo un doppio ottonario.

Il titolo: Live, cioè dal vivo. Poesia così dal vivo da presentarsi nella veste supposta originaria: quella dei caratteri impressi dalla mente-mano dell’autore e dall’inchiostro nero della stilo. Un testo che potrebbe richiamare anche l’attenzione dei grafologi.

Perché questa scelta? Probabilmente per mimare le Dirette. La lingua della poesia, come quello del teleschermo, vorrebbe trasmettere immagini nello stesso tempo in cui le riprende. Vi è l’intento di Zanzotto, di un confronto con altri linguaggi e di una verifica continua della ‘capacità di presa ‘ della parola poetica. Un gesto non nuovo nella sua produzione.

Live, detto con una parola della lingua diventata dominante.

Live/life, scarto fonematico leggerissimo, appena percettibile.

La vita dal vivo è “Sangue e pus”.

Sangue: liquido corpuscolare, flusso rosso vivo di preziose sostanze alimentari e scarti, andirivieni di ossigeno e di anidride. Sangue caldo o freddo, che gela nelle vene o ribolle, che va sul viso a o alla testa. Stati d’animo, energia vitale, forza. Legami di parentela, discendenza, stirpi: “il sangue non è acqua”.

Ampio lo spettro semantico del sostantivo, altrettanto quello simbolico.

Pus: ancora liquido o semiliquido. Giallastro questa volta, purulento, opaco. Indotto da ferite inflitte o subite dal corpo, da processi infiammatori più o meno estesi. Essudati patologici.

La vita dal vivo è questo polisindeto, questa congiunzione di rosso vivo (o cupo) e giallastro, questa energia e patologia, questa drammatica biologia dei corpi.
In Idioma il poeta scriveva, “ogni OPUS è zero più pus”.

e dovunque le superflue /superfluenti vitalbe che parassitano gli occhi”.

Inutile cercare in questi primi due versi la proposizione principale. Il verbo è omesso. Il periodare è ellittico, procede per addizione, accumulo (e… e…), giustapposizione. E’ il comportamento di un pittore che traccia sulla tela prima una rete o un intricato sistema di arterie e capillari rossi, poi vi aggiunge macchie giallastre e, infine, vitalbe dappertutto.

Dalla biologia alla botanica. Vitalbe: arbusti rampicanti appartenenti alla famiglie delle Ranuncolacee. Parassiti così comuni e infestanti da diventare simbolo di invadenza in alcuni proverbi contadini. In certi dialetti meridionali, infatti, dare della vitosa (vitalba, in lingua) ad una persona significa sottolineare proprio un tale tratto comportamentale.

Ma vitalbe, sfruttando il parassitismo della catena significante, è anche vita-albe. Vita ai suoi albori, vita alle origini, vita che resiste, superflua e superfluente. Superflua: non vi sono ragioni per spiegare la presenza delle vitalbe sulla terra. Azzerato ogni criterio di utilità, la vitalba col suo fusto, i suoi fiori, le sue foglie, vive una condizione di sovrabbondanza. Sta dovunque e basta, senza alcuna necessità. Né triste, né lieta di pur-essere. Come la quasi novantenne di pagina 69, la vecchietta Teresa, che “faceva psicoterapia alle altre vecchiette”:

La ‘ndea in let prima de not
la se indormenzhéa
la se svejéa sui tre bot:
‘Ciò, no son-e ancora viva!’
Né trista né lieta avea sembianza
co la diséa cussì, po la se oltéa
e inte la sòn la tornéa galiva galiva

(Andava a letto prima di notte / si addormentava / sulle tre si svegliava: / ‘Toh, sono ancora viva!’ / Né triste né lieta avea sembianza / quando così diceva, poi si voltava / e nel sonno tornava pari pari).

Qui, forse, il taoismo di Zanzotto, in questo sguardo sorridente di Budda, il Santo Gotamo, verso la vecchietta i cui principi psicoterapeutici si riassumono nella consapevolezza di dover curare e farsi curare il proprio male, perché se si muore, si è semplicemente “una (o uno) di meno”.

Come le vitalbe sulla terra siamo superflui. Gratuiti come ogni poesia.

L’identificazione della parola poetica con l’invadente arbusto è manifesta in alcuni frammenti del componimento Sedi e siti (pagg. 65-66)

Volo del grigiore
glomi e glomi delle superflue
superfluenti vitalbe
tu del superfluo
e accanto raccogliersi-in-luogo
e intensità di luogo, testimone

***

Paese dei Balocchi, milioni
di aerei stemmi-diamanti-vitalbe
mai stanche di soffrire, stranirsi, di giocarsi
l’ultimo filo

Le inflorescenze delle vitalbe diventano d’inverno gomitoli grigi, iridescenti, simili a diamanti per il loro splendore. Sembra di trovarsi nel Paese dei Balocchi; questa volta, però, i trastulli non giungono dal televisore, ma dal volo di milioni di aerei stemmi, ossia di leggeri filamenti vaganti per l’aria e provenienti dalle corone delle piante superfluenti.

Il loro accanimento, il loro raccogliersi, la loro capacità di sopportare la sofferenza e i turbamenti rappresentano per la voce poetante delle proiezioni ‘positive’. Così le vitalbe non sono solo grigiore e superfluità avvolgente. Sono anche ‘cariche di valori’, insegne, stemmi di martirio e di autentica testimonianza.

Fortini che commentò qualche anno fa con la consueta ’partigianeria’, oltre che sapienza e cultura, il componimento Sedi e siti, lesse nella doppia natura della metaforica vitalba (gratuità, non necessità, irrilevanza da un lato e accanimento, ostinazione, permanenza testimoniante dall’altro) «una concezione sacrificale e profetica che accompagna frequentemente le sconfitte, collettive o individuali. In questo caso la testimonianza è di una pietas nei confronti della scomparsa società contadina (e della vita stessa della voce poetante)» (F. Fortini, Commento al testo, in «Allegoria», n. 6, 1990, pag. 52)

Condividiamo questa lettura. E, tuttavia, vorremmo che fosse adeguatamente sottolineato, in questa ostinata forza riproduttiva o parassitismo ‘ripetitivo’ delle superflue/superfluenti vitalbe, l’oscuro “piacere del principio” che, secondo Zanzotto, “l’essere ha di essere”:

«Si dovrebbe dunque, partire dal postulato di un certo qual ‘piacere’ che l’essere ha di essere: da questo piacere del principio si diramano le diverse pulsioni (e ciò in un quadro che vive anche della contraddizione): esse comunque tendono ad accertare a mettere in opera ‘nuclei di sopravvivenza’ attivati verso una continua, ostinata ripetizione. Ciò avviene in qualunque atto di genesi che nell’arte si identifica con una spinta incoercibile verso una forma di lode, o gioco liberante, o anche verso una forma di terapia basata sul rinnovamento-invenzione (A. Zanzotto, Tentativi di esperienza poetica (Poetiche-lampo), in «Il Verri» , n° 1-2,1987, pag.10)

Evidenziata l’importanza di questi ‘nuclei di sopravvivenza’ rappresentati dalle vitalbe, si può ora tornare ai versi di Live.

Eravamo in prossimità della proposizione relativa “che parassitano gli occhi”.

Gli arbusti ranuncolacei vivono da parassiti, installati dentro gli organi, per eccellenza, della facoltà percettiva e conoscitiva. Con quale effetto? Quale vantaggio o svantaggio trae il senso della vista da questo tipo di simbiosi con un organismo vegetale? L’ospite è affetto dal parassita?

La relazione vitalbe-occhi metaforizza, probabilmente, il rapporto speciale tra vita all’origine (vegetal-naturale) e percezione-visione umana. La natura, il regno della vita, che sempre scorre sovrabbondante in nuovi albori, s’impianta nella visione-conoscenza umana. La cultura, abitata da quest’ospite, non può fare a meno di lui.

Il rapporto natura-cultura è un tema fondamentale nella poesia zanzottiana. Lo stesso dicasi del rapporto d’affezione parassitaria suggerito dall’incontro vitalbe-occhi. Ogni nuova vita umana è originariamente una relazione simbiotica. Non solo biologicamente, ma anche come accesso alla lingua, sistema simbolico quanto mai fondamentale.

Un teleschermo. Dopo la biologia del sangue e pus, la botanica delle superflue/superfluenti vitalbe, l’anatomia degli occhi, ecco l’eroe del nostro tempo, il protagonista della cultura di massa, il vulcanico tubo catodico, la grande bocca del video. Per definizione esso lavora dal vivo, live.

Quotidianamente trasmette Dirette, non quelle delle vitalbe, che pur sono vive come non mai nel loro assoluto divenire, ma quelle con la maiuscola, quelle che si chiamano proprio così.

Diretta: trasmissione televisiva mandata in onda simultaneamente alla ripresa dei fatti. Gli occhi che riprendono dal vivo sono altri da quelli sui quali si rovesciano le scene. Questi ultimi non vedono dal vivo, anche se fanno propria questa illusione. Così il teleschermo assicura una finzione di contemporaneità. In realtà è fuori tempo massimo. Non solo perché non sta al ritmo e alla cadenza superfluente delle vitalbe, ma perché non è, se mai lo è stato, del nostro tempo. Il meteo del teleschermo non è quello della vita-poesia. Il bollettino che invia le sue previsioni, le sue cronache, i suoi Balocchi, anche se sembrano provenire da un potere divino col monopolio di dare un nome proprio alle scene finto-vive e ai trastulli immaginari, sono fuori tempo rispetto a quelle delle vitalbe. Anzi fuori tempo massimo. Il che non vuol dire senza tempo.

Fuori tempo massimo è espressione che Zanzotto ha gia usato in un altro testo. La si trova per la precisione nella poesia Retorica su: lo sbandamento, il principio di “resistenza”, contenuta nella raccolta La Beltà. Non è l’unica. In diversi componimenti di Meteo si riprendono espressioni e parole delle precedenti produzioni. Lo si è detto: il modo di procedere per successivi ‘allargamenti’ e ‘sprofondamenti‘ dell’autore.

Si è così costretti a leggere l’ultimo Zanzotto avendo in mente il poeta dell’esordio di Dietro il paesaggio (1951), quello della ‘crisi’ dell’Io lirico tradizionale di Vocativo (1957) o quello della totale convenzionalità del codice letterario prodotto fra IX Ecloghe (1962) e La Beltà (1968), quando l’Io, ridotto a semplice funzione testuale, passò la parola al signficante, alla materialità del meccanismo linguistico, capace non solo di rappresentare, ma di creare direttamente senso.

La raccolta o la non-raccolta di Meteo, oltre alle riprese, contiene ‘novità’? E se sì, di che tipo?

Meteo è un avviso di emergenza. Il ‘paesaggio’ è mortale e non più aggirabile. Il vermo reo fora il mondo, ma rischia di ‘bucare’ anche la poesia, la cui lingua, pur continuando a muoversi tra l’assetto retorico definito nel 1968 e consolidato con la ‘pseudo trilogia’ del 1978 (Il Galateo in bosco), del 1983 (Fosfeni) e del 1986 (Idioma), manda segnali di ritorno al significato, alla voce imprescindibile dell’esperienza.

Dribblando il rischio neocrepuscolare e il nichilismo dello zapping, la poesia-vitalba può confrontarsi con la violenza e la malattia del ‘paesaggio’, semantizzarle con descrizioni, frammenti e ‘voli del grigiore’, per continuare a scegliere nelle macerie il valore di testimonianza della verità e del ‘principio di resistenza’ o del principio del piacere.

* * *

BIBLIOGRAFIA

FRANCO FORTINI, Commento al testo, in «Allegoria», n° 6, 1990
NICOLA GARDINI, Gli incerti segni della poesia, in «Poesia», n° 97, 1996
GIORGIO LUZZI, Andrea Zanzotto. Meteo, in «Poesia», n° 97, 1996
GIANLUIGI SIMONETTI, L’ultimo Zanzotto. Un’estrema scelta di auconservazione, in «Il Ponte», anno LIII, n° 3, 1997
GRAZIELLA SPAMPINATO, Lo zapping di Zanzotto, in «L’Indice», n° 6, 1996
GRAZIELLA SPAMPINATO, La Musa Interrogata. L’opera in versi e in prosa di Andrea Zanzotto, Hefti Edizioni, Milano, 1996
GIAN MARIO VILLALTA, La costanza del Vocativo, Guerini e Associati, Milano, 1992
ANDREA ZANZOTTO, Idioma, Mondadori, Milano, 1986
ANDREA ZANZOTTO, Tentativi di esperienza poetica (Poetiche-lampo), in «Il Verri», n° 1-2, 1987



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