Donne da comprare

Creato il 01 marzo 2016 da Mollybloom

Riflessioni profonde sulla questione della genitorialità surrogata mi accompagnano ininterrottamente da qualche anno, ovvero da quando un mio amico e il suo compagno hanno avuto due gemelli attraverso la gestazione su compenso da parte di una donna. Tutto questo è avvenuto in un paese estero dove loro vivono da molti anni. È l’unico caso che conosco direttamente, e ne potrei riferire solo riscontri positivi, anche molto toccanti.
In queste ultime settimane ho pensato di dover prendere con me stessa una posizione più netta, a seguito di quanto molte persone hanno esternato, provocato, manifestato, malpensato e ipotizzato sull’argomento. Con grande sofferenza, ho deciso che una futura legge a favore del cosiddetto “utero in affitto” (eterosessuale o omosessuale per me non fa alcuna differenza, per me si tratta sempre e comunque di una famiglia) non mi vedrebbe favorevole.

La motivazione principale è legata alle mie convinzioni primarie rispetto al fatto che ciascun essere umano nasca come una tabula rasa, con pochissime istruzioni emotive nel suo DNA tolte quelle legate a ciò che pertiene il suo organismo, oltre a un bagaglio di istinti che, nel bene o nel male, sono serviti alla specie homo sapiens per arrivare fino a qui oggi − consiglio a questo proposito un recente articolo pubblicato da La Verdad – è in spagnolo ma si capisce. La mia convinzione è che il feto viva nel ventre della gestante assorbendone una serie di “stimolazioni elettromagnetiche” (per esprimere la cosa in termini neutri e il meno possibile olistici o spirituali), e che quindi tutto ciò che poi da bambini “dimentichiamo” a livello di coscienza consapevole, in verità lasci la sua impronta su di noi. Intendiamoci: inutile pensare che nelle condizioni tradizionali di riproduzione umana le gravidanze e il relativo post-partum siano momenti idilliaci, senza dolori, depressioni, collere, paure, traumi di qualsiasi tipo eccetera, anzi. Ma un conto è cercare di adattarsi alla realtà che la vita pone, un conto è programmare, per un bambino che dovrà nascere, il suo certo abbandono da parte della donna che lo ha tenuto in gestazione. Su questo scoglio si ferma, credo in modo irrevocabile, il mio personale assenso a una legge su questo tema. So che potrei fare molte eccezioni, ma non è così che si fa la giurisprudenza, e allora il mio sarebbe un no, sofferto, ma un no.
Questa lunga premessa per scolpire la cornice adatta al punto finale di arrivo, ovvero ciò che riguarda la donna. Trovo veramente ipocrita chi esprime giudizi pietistici (ma spesso anche sprezzanti) nei confronti delle donne che scelgono di essere madri surrogate, soprattutto quando questo è riferito a donne che vivono in paesi in via di sviluppo e non, per dire, donne WASP californiane di ceto medio che attraverso l’affitto vogliono magari mandare i figli in università migliori − che sono peraltro le donne a cui si rivolgono molti clienti italiani. Mi riferisco invece alla doppia morale inaccettabile di chi si arroga il diritto di decretare cosa sia meglio per una donna di una nazione emergente che vive spesso in condizioni che neanche sogniamo. Certo, parliamo di donne “costrette” a una scelta di questo tipo dalle proprie ristrettezze economiche, chi dice di no? Ma come sottolineava molto bene la scrittrice Michela Murgia, da questo singulto di coscienza siamo esenti ogni qualvolta le madri abbandonano la loro prole in altre nazioni per venire da noi a pulire la nostra casa o badare ai nostri anziani, per tacere di quanto non ci frega assolutamente di sapere chi, come, quanto e dove una donna venda il proprio corpo come schiava per produrre quei capi che compriamo compulsivamente (e che con carità pelosa depositiamo nel cassonetto del riutilizzo del vestiario già l’anno dopo) solo a patto e solo perché costano poco. Senza mai pensare mezzo secondo al fatto che quel “poco” è il denaro tolto alle donne che hanno venduto il proprio tempo (praticamente ogni ora della loro veglia), il proprio corpo, la propria salute, la propria genitorialità, la propria dignità − la propria vita − perché merce inutile fosse economicamente alla portata delle nostre tasche; così invece che comprare meno cose, togliersi meno capricci, e comprare con oculatezza solo ciò che ci serve e che abbiamo garanzia sia lavorato in modo equo e solidale, andiamo avanti a spendere sulla pelle di chi lotta per sopravvivere. Sulla pelle di quelle donne che magari invece sono felici di poter fare le portatrici di un figlio per nove mesi: sì certo, iniezioni di bombe ormonali per garantire che attecchisca l’embrione, ma per il resto parliamo di check-up sulla salute che nessuna di loro potrebbe mai sognarsi, con monitoraggi, astensione dalle fatiche, alimentazione corretta, riposo, e una paga decisamente più adeguata. Qualcosa che è talmente lontano da quell’arso quotidiano a cui sono abituate che non si può che comprenderle, e non è detto che magari già madri di più figli di quanti non possano permettersi di sfamare, non siano invece serene sul fatto di compiere questo cammino per qualcun altro, in un’ottica di beneficio reciproco.
Per tacere, infine, su quanto non ci frega assolutamente nulla di tutte quelle donne schiave del sesso e costrette a battere le strade dietro casa nostra: niente. Dov’è una parola di sdegno vero ma soprattutto legislativo, dove sono le persone in piazza per trovare un modo per fermare questo (dis-)umano scempio che si compie ogni notte migliaia di volte dietro l’angolo? In Svezia si punisce chi il sesso lo paga, non chi lo vende, ché nel 90% è vittima di un ricatto da parte di uno sfruttatore.

Ho avuto la fortuna di viaggiare per mezzo mondo, e pur nella mia superficialità da turista ne ho viste molte di donne sofferenti (ne ho scritto anche un pezzo che potete leggere qui), e per questo mi arrogo il diritto di scrivere che piuttosto che giudicare senza alcun diritto una donna che sceglie di essere gestante per conto di qualcun altro dall’alto della nostra indifferente disumanità, facciamoci una cortesia: stiamo zitti.

Foto mia, Pisac, Perù – 2003. Photo editing Mikael Tigerström.

Grazie all’antropologa Giulia Colavolpe Severi per alcune importanti considerazioni e informazioni sull’argomento.

Doverosa postilla: Fabrizio Centofanti ha una pazienza infinita nei miei confronti. Ci mancava solo che andassi a toccare un tema come questo per La poesia e lo spirito. Ma anche questa volta mi ha stupita, accettando di ospitare questo personale punto di vista. Un’onestà intellettuale rara, e coraggiosa, che gli voglio e gli devo pienamente riconoscere.