Dopo la Conferenza di Londra, quale futuro per la Somalia?

Creato il 14 maggio 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Gianpiera Mancusi

Dopo anni di disinteresse, la comunità internazionale si è riunita a Londra lo scorso 23 febbraio per trovare una soluzione alla crisi somala. La conferenza, fortemente voluta dal Primo Ministro britannico David Cameron, ha riunito allo stesso tavolo le delegazioni di 55 Stati e Organizzazioni Internazionali (a cui si sono uniti il Segretario di Stato americano, Hilary Clinton, e il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon) oltre ai rappresentanti del Governo di Transizione Nazionale, delle regioni “semi-autonome“ del nord, Somaliland e Puntland [1] e della regione centrale del Galmudug [2]. Convocata per trovare soluzioni ai profondi problemi politici e alla drammatica crisi umanitaria somala [3], la conferenza si è conclusa con poche decisioni concrete che, nell’insieme, non sembrano poter traghettare il Paese fuori dalla situazione di “emergenza complessa” [4] nella quale langue da oltre un ventennio.

“Lo stato fallito”

Il 2011 ha segnato un triste primato per la Somalia: venti anni dal burbur (catastrofe), come vengono definiti gli anni ‘91-‘92, quando, caduto il dittatore Siad Barre, il Paese è precipitato in un vortice di violenza dal quale non è ancora uscito. Dopo aver guidato la rivolta contro Barre, i signori della guerra, animati da rivalità locali e divisioni claniche, non riuscirono a trovare un accordo ed iniziarono a farsi guerra tra di loro. Di fronte al vuoto di potere e al deteriorarsi della situazione umanitaria, le Nazioni Unite mandarono una prima missione di peacekeeping (UNOSOM I): nonostante, per mandato, la forza multinazionale dovesse solo monitorare la tregua, ben presto si trovò coinvolta nella guerra tra milizie armate. Nel dicembre 1992 l’Amministrazione Clinton decise di inviare una task force per stabilizzare la situazione nel sud della Somalia, permettendo così agli attori umanitari di soccorrere la popolazione civile allo stremo. Tuttavia, l’operazione “Restore Hope” ben presto si trasformò in una vera e propria caccia ai signori della guerra. Il 3 ottobre, durante un raid per catturare il più potente signore della guerra somalo, Mohamed Farrah Aidid, 19 rangers americani rimasero uccisi. Questo episodio segnerà non solo il ritiro di tutti i soldati americani ma anche l’inizio del disimpegno e dell’indifferenza della comunità internazionale di fronte alla tragedia somala. Dal 1994, la Somalia diventa una sorta di “no man’s land”.

Gli anni 2000 segnano l’inizio del dialogo tra i signori della guerra: con la Conferenza di Gibuti si ha l’instaurazione del Governo Transitorio Nazionale, un esecutivo unitario con il compito di mediare dapprima la tregua tra le varie fazioni combattenti e poi di traghettare la Somalia verso elezioni democratiche. Il governo viene subito riconosciuto in campo internazionale come l’unico rappresentante legittimo della popolazione somala. Negli stessi anni, tuttavia, il già confuso quadro politico somalo si complica con l’emergere di un nuovo attore: l’integralismo islamico rappresentato dall’Unione delle Corti Islamiche e, soprattutto dalla sua componente più radicale, il movimento degli Al-Shabab [5]. Nel 2006, infatti, le Corti prendono il controllo di gran parte del sud del Paese dichiarando subito l’instaurazione della sharia, la legge islamica.

Di fronte all’avanzare dell’integralismo, l’Etiopia [6] (ed, in un secondo momento, il Kenya) decide di intervenire, nel dicembre 2006, per mano militare, mettendo fine al potere delle Corti e permettendo al governo transitorio di stabilirsi a Mogadiscio. Pochi mesi dopo, nel febbraio 2007, l’Unione Africana manda una sua missione, l’AMISOM [7], con il compito di supportare le strutture del governo di transizione, di addestrare le forze di polizia somale e di mettere in sicurezza l’area in modo da permettere la distribuzione degli aiuti alimentari. Grazie alla presenza di circa 12.000 soldati, la situazione migliora visibilmente, anche se il governo mantiene limitata capacità di controllo soprattutto nelle regioni del Sud. La stessa Mogadiscio rimarrà divisa fino ad agosto 2011, quando gli integralisti, sotto la pressione della missione africana, si ritirano dalla capitale [8].
Ad oggi la situazione rimane ancora molto volatile: l’alto grado di violenza interna, il terrorismo e la debolezza del governo stesso, incapace di superare le divisioni interne e presentare un progetto di pacificazione reale della nazione nonostante i milioni di dollari ricevuti [9], fanno della Somalia il capofila dei “failed states” [10].

La conferenza delle iniziative e non delle promesse

Tema centrale dell’agenda di Londra non poteva che essere la sicurezza a causa dei risvolti interni (terrorismo) e soprattutto esterni (vedi pirateria). I delegati si sono tutti trovati d’accordo sulla necessità di indebolire ulteriormente gli Al-Shabab, ma si sono presentati meno compatti al momento di decidere il “come”. Alcuni – la minoranza – hanno suggerito di includerli al tavolo delle trattative, o per lo meno avviare dei contatti per cercare di ammorbidire le loro posizioni. Altri hanno chiesto di riprendere bombardamenti mirati contro le roccaforti integraliste: quest’opzione è stata, tuttavia, scartata viste le pesanti conseguenze sulla popolazione civile. Alla fine ci si è invece orientati verso il rafforzamento del ruolo del contingente AMISOM le cui truppe, come deciso in ambito ONU, passeranno dalle 12.000 attuali alle circa 17.000 e il cui mandato è stato esteso per coprire anche il rispetto e la protezione dei civili. Non si è invece toccata la delicata questione del ruolo e della legittimità della presenza delle truppe etiopi e keniote [11], che ancora oggi “occupano” considerevoli porzioni di territorio in nome della guerra agli Al-Shabab.

Più incisive le decisioni che riguardano la lotta alla pirateria con l’istituzione del “Regional Anti-Piracy Prosecutions Intelligence Coordination Centre” alle Seychelles e il rafforzamento degli accordi che permettono ai pirati somali di essere estradati e venire processati in Paesi terzi.

La discussione si è poi incentrata sul futuro politico della Somalia. È stato stabilito che, ad agosto, l’attuale compagine istituzionale [12] decadrà per dare spazio a un nuovo Parlamento. Resta tuttavia da definire come si svolgeranno le elezioni e chi le garantirà dal punto di vista della copertura finanziaria e della sicurezza [13].

Per combattere il fenomeno dilagante della corruzione, è stata poi decisa la costituzione di un “Joint Financial Management Board”, una sorta di “consiglio di amministrazione” unificato per la corretta gestione dei fondi internazionali i cui primi membri sono il TFG, il Regno Unito, la Francia, l’UE e la Banca Mondiale.

Si è, di fatto, riconosciuta l’indipendenza del Somaliland, mentre per le altre regioni si è ribadita la necessità di preservarne una certa autonomia nel futuro assetto federale.
Infine, poiché la crisi non è solo politica ma – soprattutto – umanitaria, si è sancito, per la prima volta, il principio che l’aiuto umanitario deve essere ripartito in base agli effettivi bisogni, mentre il governo americano ha deciso di stanziare ulteriori 64 milioni di dollari in aiuti alla popolazione ancora gravemente affetta dalle conseguenze della carestia della scorsa estate.

Una nuova era per la politica somala?

La conferenza, nel suo complesso, ha il merito di aver riconosciuto la crisi somala come un problema “internazionale” ed essersi espressa unanimemente circa la fine di un periodo transitorio che dura oramai da quasi un decennio. Tuttavia ha anche messo in evidenza le contraddizioni di una comunità internazionale che, pur riconoscendo che “le decisioni sul futuro della Somalia appartengono al popolo somalo”, di fatto, pianifica il futuro di questo Paese intorno ad un tavolo.

* Gianpiera Mancusi è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

[1] La Repubblica del Somaliland, il cui territorio fino al 1960 faceva parte dell’impero coloniale britannico, si è  autoproclamata indipendente nel 1991 a seguito della disintegrazione della Repubblica Somala. Pur non essendo riconosciuta dalla comunità internazionale, intrattiene rapporti con molti Paesi tra cui  Regno Unito, Ruanda, Norvegia, Kenya, Etiopia, Irlanda ed Unione Europea. Gode di una relativa tranquillità. Diversa è la situazione del Puntland: dopo aver dichiarato l’autonomia dal resto della Somalia nel 1998, ha  successivamente riconosciuto l’autorità del governo di transizione. Somaliland e Puntland, non sono rimasti coinvolti nelle vicende relative alla vittoria delle Corti islamiche nella guerra civile in Somalia nel giugno 2006 e alla successiva riconquista delle regioni meridionali da parte delle truppe somale ed etiopi.

[2] Lo Stato del Galmudug si è costituito in seguito alla presa del potere da parte delle Corti Islamiche: il suo territorio è, tuttavia, per gran parte controllato da Al-Shabab.

[3] La conferenza si è tenuta a poche settimane dalla fine dell’emergenza siccità che ha interessato, la scorsa estate, tutto il Corno d’Africa. Nel luglio 2011, le Nazioni Unite dichiarano che la situazione di insicurezza alimentare provocata dalla prolungata assenza di piogge, dalla scarsità del raccolto, nonché dai continui combattimenti nella parte meridionale della Somalia, ha assunto le proporzioni di una vera e propria carestia. Solo in Somalia questa ha colpito 4 milioni di persone e causato 1,3 milioni di sfollati interni. Oltre un milione di somali hanno cercato rifugio in Kenya (nonostante la  chiusura del confine in atto dal 2009) e  si sono diretti nella vicina Dadaab, cittadina che ospita il campo profughi più affollato del mondo. Tuttavia, secondo le agenzie umanitarie, sebbene la fase più acuta della carestia possa dirsi conclusa, ancora 2.3 milioni di persone necessitano di assistenza (OCHA – United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs).

[4] Per emergenza complessa si intende “una crisi umanitaria che avviene in un Paese, regione o società in cui si è verificato un crollo totale o considerevole dell’autorità costituita, come risultato di un conflitto interno od esterno, e che richiede una risposta internazionale che va al di là del mandato e delle capacità di ogni singolo attore” (Inter-Agency Standing Committee ,UN, 1991).

[5] In seguito alla dissoluzione delle Corti Islamiche, nel dicembre 2006, Harakat al-Shabab al-Mujahideen (Movimento dei Giovani Guerriglieri) emerge come il capofila della lotta armata nel Paese. I suoi obbiettivi sono: la cacciata degli stranieri dal territorio somalo, il rovesciamento del Governo Federale di Transizione (GFT) e l’instaurazione della sharia come legge di Stato.

[6] Secondo molti, l‘intervento etiope fu motivato più dal timore di un accerchiamento regionale e dal massiccio sostegno che l’Eritrea forniva alle Corti Islamiche, che dal timore per l’islamizzazione della regione come risultato di un possibile  effetto domino.

[7] La missione dell’Unione Africana può essere considerata uno degli interventi stranieri più riusciti sul territorio somalo. Pesante è tuttavia il bilancio in termini di vite umane: secondo stime recenti, a partire dal 2007, ben 500 soldati hanno perso la vita. Ciò rende questa missione una delle più sanguinose di tutti i tempi.

[8] Il movimento islamico rimane, al momento, ancora molto potente e  radicato nel Sud e capace di attacchi terroristici anche nella capitale (l’ultimo, in ordine di tempo, è avvenuto lo scorso 4 aprile, durante la celebrazione per la  riapertura  del Teatro Nazionale).

[9] L’ingente afflusso di aiuti economici, anziché alleviare la sofferenza della popolazione civile, sembra abbia notevolmente alimentato la piaga della corruzione tra esponenti del governo e  autorità locali.

[10] Uno Stato si definisce tale quando il governo centrale è incapace di  mantenere  il controllo su tutto – o parte – del territorio e non è in grado di far fronte ai bisogni di base della propria popolazione. A partire  dal 2005 il “Fondo per la Pace” (FFP), organizzazione indipendente americana che lavora per contribuire alla prevenzione dei conflitti, assieme alla rivista Foreign Policy, pubblica un indice annuale chiamato “Indice degli Stati Falliti” basata su 12 indicatori (pressioni demografiche, movimento di massa di rifugiati e profughi interni, eredità di un torto da parte di un gruppo in cerca di vendetta, incitamento all’esodo umano, sviluppo economico squilibrato lungo le linee del gruppo, violento e/o grave declino economico, criminalizzazione e/o delegittimazione dello Stato, progressivo deterioramento dei servizi pubblici, diffuse violazioni dei diritti umani, apparato di sicurezza come Stato nello Stato, ascesa di élite divise in fazioni, intervento di altri Stati o fattori esterni):  negli ultimi tre anni, la Somalia si è posizionata al primo posto di questa classifica.

[11] In seguito agli sconfinamenti delle milizie islamiche e all’uccisione e rapimenti di turisti stranieri al confine tra i due Stati, il governo keniota ha  lanciato un’offensiva militare di concerto con il TFG e l’Unione Africana.

[12] Il Governo Transitorio Nazionale, al momento, si trova a contrastare una grave crisi di legittimità sia interna (per  via dell’inefficacia della sua azione e la lontananza dai bisogni della popolazione) sia  esterna. Quest’ultima è cresciuta negli ultimi mesi a causa della decisione unilaterale del TGF, nel giugno 2011, di estendere  il proprio mandato per  altri 3 anni. Proprio le pressioni internazionali hanno fatto fare marcia indietro al governo.


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