"Doppio inganno al Valentino" di Massimo Tallone

Creato il 07 novembre 2011 da Retroguardia

Romanzo di ordinaria follia. Massimo Tallone, Doppio inganno al Valentino. Un intrigo tra Venezia e Torino, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2009

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di Giuseppe Panella*


E’ possibile che dei quadri famosi, di tradizione secolare e di prestigio straordinario, vere e proprie pietre miliari nella storia dell’arte, siano, in realtà, dei falsi?  E che le tele di Carpaccio appese nella Scuola di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia siano soltanto delle riproduzioni ben fatte ma con un segno distintivo di differenza a marcare la qualità dell’opera a futura memoria dei posteri? E’ una delle ipotesi che fanno detonare fin dall’inizio questo romanzo noir di Massimo Tallone ambientato in maniera un po’ sghemba tra la Venezia dell’arte e la Torino degli intrallazzi e degli affari.

Il Cardo, un bravo pittore di trompe-l’oeil che si auto-definisce “il modello base” dell’essere umano (senza optional non necessari come cervello, cultura, abilità e sentimenti amorosi), viene incaricato da Raffaella, insegnante di Storia dell’Arte in un liceo di Torino, di dipingere sulle pareti dello studio dell’insegnante una copia perfetta del quadro Sant’Agostino nello studio di Vittore Carpaccio. Poi per premiarlo della sua bravura lo spedisce a Venezia a proprie spese per vedere l’opera pittorica dal vero. Qui, il Cardo prima compie un tour accurato degli spacci di vino della città lagunare, poi va a concludere la sua missione. Si accorge quasi subito, a prima vista, che il quadro è falso: la clessidra usata dal Santo studioso non è completamente vuota ma un po’ della sua sabbia è presente all’interno della prima ampolla, quella che si svuota. Ingenuamente lo scrive sul registro dei visitatori del Museo lasciando al custode del luogo il compito di denunciare quanto gli sembra lampante. Quasi immediatamente due individui non identificati lo colpiscono alla testa, lo appesantiscono di un mattone e lo gettano in un canale. Il Cardo si salverà perché ha subito l’istinto irriflesso di stringere una valva di cozza rimasta sul fondo del battello in cui è stato deposto prima del tuffo che avrebbe dovuto essergli fatale. Tornato fortunosamente a Torino, andrà a trovare Ribò, un ex-poliziotto che ormai fa il poliziotto privato e lo incaricherà di indagare sul suo caso per capire chi sia stato a cercare di ucciderlo. Poi si recherà per consolarsi da Angela, la prostituta un po’ appassita ma cordiale e sincera che batte poco lontano dalla cascina dimessa in cui abita, a Stupinigi, quattro chilometri e mezzo da Nichelino di Torino. Dopo aver consumato con la donna e quindi essersi rilassato, il Cardo viene abbattuto da due individui anch’essi misteriosi (uno spilungone e il suo deferente complice) introdottisi a casa sua e portato via a Campiglione, in un campo deserto dove lo seppelliscono vivo. Quando ormai pensa di stare definitivamente per morire, viene salvato dalla prostituta e dal suo pappone Aldo che lo tirano fuori dalla sua dimora provvisoria. A questo punto, sarà necessario metterlo in salvo e Ribò lo fa rifugiare in un ristorante di lusso (con camere) a Cravanzana, in provincia di Cuneo. Da qui, trascorso qualche giorno necessario a far calmare le acque e decantare la situazione, i due vanno a Venezia a indagare sulle vicende intervenute con il tentativo di uccidere il Cardo. Il quadro sembra essere autentico ora dato che la clessidra è come avrebbe dovuto essere ma questo non basta a tranquillizzare Ribò. Usciti dal Museo di San Giorgio degli Schiavoni, Ribò e il suo amico vengono intercettati dagli stessi individui che avevano provato a uccidere il Cardo a Torino. Portati su un’isola nel cuore della laguna, vengono salvati da morte sicura dall’arrivo di alcuni contrabbandieri slavi di forza-lavoro che li liberano e uccidono i loro rapitori senza preoccuparsi troppo di aver commesso degli omicidi. A questo punto, Ribò decide che bisogna fare sul serio. Il vero motivo per il quale Raffaella, l’insegnante di Storia dell’Arte che aveva commissionato il trompe-l’oeil al Cardo, si era concentrata sul Sant’Agostino nello studio era perché aveva sentito, per caso, da una voce proveniente da uno dei gabinetti della scuola, un suo allievo particolarmente ignavo (ma ben protetto a causa dell’intervento sempre più protervo del padre, l’avvocato Parvopasso) che si vantava con i suoi compagni di scuola di possedere l’originale dell’opera del Carpaccio. Al punto in cui l’indagine si è attestata, ormai, l’unica possibilità di scoprire la verità è indagare sul ricco e potente avvocato. Per farlo, Ribò si spaccia per un conte assai eccentrico e si fa ammettere nel club più esclusivo di Torino, il Circolo dei canottieri Saepe et libenter dove alligna gente come l’avvocato Parvopasso. Per attirare l’attenzione si fa accompagnare dal suo servo muto (il Cardo ben ammaestrato per l’occasione) che lega di solito alla balaustra del balcone del club che sporge sul Po e che invita gli altri soci a considerare come un oggetto o una parte del mobilio. Lo stratagemma messo in atto da Ribò sembra avere successo e un giorno il provocatorio nobile viene invitato a cena dall’avvocato nella sua tenuta di Cavour, non lontano proprio da Campiglione.

Il Cardo partecipa di malavoglia perché “non sopporta le storie”:

«Non sopporto le storie, c’è poco da dire. Anche o soprattutto quando accadono a me. Per gli altri, da quanto vedo in giro, non è così, perché sembra che tutti amino le storie. So per esempio che a molti piacciono i film e a me invece mi fanno dormire proprio perché lì c’è quasi sempre una storia che comincia, si sviluppa e finisce. Poi ci sono quelli che addirittura leggono i romanzi, e sai che palle, peggio dei film. C’è poco da fare, le storie, le trame, gli intrecci, per qualche misteriosa ragione, attraggono i bietoloni, ma non me. C’è qualcosa di noioso, anzi di violento e di forzato in ogni storia. Ma mica sto parlando solo delle storie raccontate dai falliti che scrivono i romanzi o che girano i film. No, no, io parlo delle storie in genere, di tutte le storie, anche quelle che succedono nella realtà. Perché, alle strette, ecco che cos’è una storia: ti capita un fatto, da cui ne discende un altro, da cui ne discende un altro, che porta a una conseguenza, che a sua volta genera una reazione, che scatena un effetto… Proprio così: le storie non sono altro che una noiosa sequenza di cause e di effetti. Una sequenza dispotica, tirannica, perché a partire dal primo evento tutto è condizionato, tutto è ingabbiato in quel canale. Come questa storia maledetta, iniziata da un innocuo trompe-l’oeil  in casa di quella squinternata di Raffaella e proseguita fino a questo momento in una catena obbligata e sfottuta di ripercussioni. […] Ogni vicenda, narrata o vissuta, è intrappolata nel suo rigido e necessario sviluppo. […] Girala come vuoi, le storie, vere o inventate, sono prigioni. E io detesto le prigioni, tutte, sia quelle con le sbarre in cui ti ci ficcano a forza e sia, se non di più, quelle quotidiane in cui uno va a cacciarsi da solo o per colpa di altri. Bene, ho detto la mia e sto già meglio. Lo ripeto: mi sento dentro una storia e perciò mi sento dentro una prigione. E, allora, come è d’obbligo, io cerco di evadere» (pp. 132-133).

Per il Cardo “le storie avvengono solo nelle storie” – come dice il regista Friedrich Munro (!) interpretato da Patrick Bauchau in Lo stato delle cose del 1982 di Wim Wenders (l’uomo sarà poi ucciso trovandosi inavvedutamente e inaspettatamente al centro di una storia confusa e incerta ma per lui micidiale e definitiva). Nonostante questo, tuttavia, egli pure si trova all’interno di una storia anche abbastanza complessa e avventurosa. L’avvocato si è accorto di essere nel mirino di Ribò (che si fa chiamare con il celebrativo e genetico nome di Ribosio) e fa prigionieri lui e il suo supposto servo. Portati prigionieri al castello di Parvopasso, un vecchio palazzotto nobiliare sito a Staffarda, anch’esso in provincia di Cuneo, a sessanta chilometri da Torino, il loro destino avrebbe dovuto essere quello di essere sepolti vivi per poi morire di fame e di sete in un pozzo segreto situato in profondità all’interno dell’edificio. Solo l’intervento di Raffaella, ormai innamorata e assai legata a Ribò (a sua volta reduce da un matrimonio finito male) e soprattutto quello di Vasile, un immigrato rumeno che Parvopasso aveva cercato di coinvolgere nel tentativo di uccidere il Cardo (un suo pugnale da lancio era stato ritrovato nella fossa in cui il pittore di trompe-l’oeil avrebbe dovuto morire sepolto vivo) permetteranno ai prigionieri nella segreta di rivedere la luce. Tutto bene, alla fine – anche il Cardo potrà ritornare ala fine alla sua vita di “modello base” senza optional di intelligenza e di sentimenti condivisi cui bastano un po’ di cibo, un “pintone” di vinaccio e qualche volta una seduta rilassante con la puttana Angela…

Questo perché, nonostante il fastidio espresso dalla voce narrante nei confronti delle storie (definite “prigioni” per i soggetti che le abitano), questo romanzo racconta davvero una storia e si tratta di una vicenda condita di suspence, con colpi di scena, morti scampate per un pelo, agnizioni e innamoramenti: un vero e proprio esempio di ritorno alle tecniche narrative che avevano fatto grandi le serie romanzesche di cappa e spada ai tempi (ottocenteschi) del trionfo del genere, il tutto mascherato da noir. Ma l’atmosfera non inganni: gli sviluppi narrativi e i modi stilistici sono quelli di un romanzo d’altri tempi e forse oggi un po’ in ritardo…

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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)


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