Non spendo una parola sul film per non offendere i lettori che di certo sanno tutto, ma nel caso vi sfugga qualcosa lo trovate qui. La vicenda è sicuramente datata e ambigua, anche l'intuizione della città sotterranea degli operai non era nuovissima neanche allora (vedi La macchina del tempo e i Morlocchi di H.G.Wells, 1895), gli aspetti cristologici e biblici non sono proprio my cup of tea, l'amore puro e romantico di Maria e Freder contrapposto alla sfrenata libidine della falsa Maria ci fa immediatamente propendere per la seconda, ma niente di tutto ciò è importante. Quello che conta è lo straordinario, affascinante impatto visivo che non viene meno un istante per tutta la durata, mentre il ritmo incalzante aumenta e la vicenda si fa via via frenetica e febbrile. È la scenografia, stupefacente anche senza stare sempre lì a pensare che il film è del 1927: stupefacente e basta. Negli esterni che abbiamo visto e rivisto in moderne meraviglie come i vari Star wars, con strade pensili, biplani tra le guglie dei grattacieli, i palazzi-alveari degli operai ecc, ma anche negli interni che così sfrenatamente déco sono magnifici.
E poi quello che mi ha incantato è il fascino magnetico della recitazione antinaturalistica. Tutte le danze di Brigitte Helm nei panni (scarsi) della Maria robot, le sue espressioni lascive, le posture incredibili che assume muovendosi, i movimenti della testa e degli occhi quando è sul rogo... un piacere assolutamente irresistibile. Anche il padre Joh Frederer di Alfred Abel è meraviglioso nella sua arrogante indifferenza, e così l'esagerazione espressiva di Heinrich George, Grot, e la faccia immensamente equivoca di Fritz Rasp, lo Smilzo. E alcune scene assolutamente geniali, vedi le statue gotiche dei sette vizi capitali e della Morte che prendono vita in un balletto fantasma, o l'effetto della libidine scatenata da Maria robot tra gli elegantoni del bordello in cui si esibisce, o la magnifica scena finale in cui Joh Frederer e Grot provano a scambiarsi una stretta di mano ma non ci riescono proprio. Insomma, alla fine persino il pubblico scafatissimo del cinema Massimo di Torino era tanto commosso che è scoppiato in un applauso.
Le vicende si svolgono ipnotiche e armoniose come spirali di fumo, nel villaggio ricostruito con cura immensa nei minimi dettagli, e spingono a una partecipazione arresa ai dolori e alle poche gioie dei magnifici personaggi (e magnifici interpreti). C'è storia e umanità, ricostruzione filologica e profonda empatia, tanto che malgrado la lunghezza separarsene è difficile. Il bianco e nero delle meravigliose immagini è appena interrotto ogni tanto da qualche nota di colore, una parete azzurra, un'agata trasparente. Partecipazione straordinaria di Werner Herzog nei panni di Alexander von Humboldt. E se Metropolis è una gioia per gli occhi e per la mente, L'altra Heimat è anche, e soprattutto, una gioia del cuore. E non mi vergogno di ammettere che mi ha profondamente coinvolta. Anche qui, per dire che i torinesi sono capaci di lasciarsi andare, mentre uscivo una giovane signora che ho incrociato ancora nel buio dei titoli di coda, mi ha detto in un sussurro stupefatto: che bello!
Il tutto poi, nelle stesse sale in cui di ultimo ho visto orride americanate reazionarie come Whiplash o totalmente inutili come Birdman o storielline da oratorio come La famiglia Bélier, tanto per non fare nomi. Ma il bel cinema, antico o nuovo, grazie al cielo esiste ancora, pronto a farci evadere dalla miseria delle nostre vite e accompagnarci nel favoloso Brasile che tutti sogniamo.