Doppio sogno – Arthur Schnitzler (estratto)

Creato il 12 gennaio 2013 da Maxscorda @MaxScorda

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Capitolo V

Erano le quattro del mattino quando salì le scale di casa. Andò prima nello studio, ripose accuratamente il costume in un armadio e poiché voleva evitare che Albertine si destasse, si tolse le scarpe ed i vestiti prima di entrare in camera da letto. Accese senza far rumore la fioca lampada sul suo comodino. Albertine dormiva immobile, le braccia incrociate dietro la nuca, le labbra semiaperte, segnate da ombre di dolore; era un volto a lui sconosciuto. Si chinò sulla sua fronte, che subito s’aggrottò come se l’avesse toccata, i suoi tratti si deformarono stranamente; e all’improvviso, sempre nel sonno, scoppiò in una risata così stridula che Fridolin si spaventò.  Istintivamente la chiamò per nome. Come per risposta ella rise di nuovo in modo del tutto strano, quasi sinistro. Fridolin la chiamò ancora una volta e più forte. Ora Albertine aprì gli occhi, lentamente, a fatica, e lo guardò fisso, come se non lo riconoscesse.
«Albertine!» egli chiamò la terza volta. Solo allora lei sembrò tornare in sé. Il suo sguardo esprimeva difesa, paura e addirittura terrore.  Levò le braccia in alto, senza senso e come disperata, la bocca rimase aperta.
«Che ti succede?» chiese Fridolin col fiato sospeso.  E poiché lei continuava a fissarlo terrorizzata, aggiunse come per calmarla: «Albertine, sono io».
Albertine respirò profondamente, tentò di sorridere, lasciò ricadere le braccia sulla coperta e come trasognata chiese: «È già giorno?».
«Fra poco» rispose Fridolin. «Sono le quattro passate. Sono rientrato in questo momento». Lei taceva. Egli continuò: «Il consigliere è morto. Era già in agonia quando sono arrivato, e naturalmente non potevo… lasciare subito soli i familiari».
Ella annuì, ma sembrò averlo appena ascoltato o capito, fissava il vuoto come attraverso di lui, ed egli ebbe l’impressione, per quanto insensata potesse anche sembrargli subito quell’idea, che Albertine dovesse essere a conoscenza di tutte le sue avventure notturne. Si chinò su di lei e le sfiorò la fronte. Ella rabbrividì leggermente.
«Che hai?» egli chiese di nuovo.
Albertine scosse solo piano la testa. Fridolin le passò la mano sui capelli. «Albertine, che ti succede?».
«Ho sognato» ella disse con distacco.
«Che cosa?» chiese lui dolcemente.
«Ah, tante cose. Non riesco bene a ricordarmene».
«Forse ci riuscirai».

«Era tutto così confuso… e ho sonno. Anche tu devi aver sonno, no?».
«Nient’affatto, Albertine, probabilmente non dormirò più. Sai bene che quando rientro così tardi… la cosa più razionale sarebbe che mi mettessi subito a tavolino… proprio in queste ore mattutine…». S’interruppe. «Ma non vuoi raccontarmi piuttosto il tuo sogno?». E sorrise un po’ forzatamente.
Ella rispose: «Tuttavia dovresti almeno distenderti un pochino».
Fridolin esitò un attimo, poi fece come lei desiderava e si sdraiò al suo fianco. Ma si guardò bene dal toccarla. Una spada ci divide, pensò, ricordandosi di aver fatto una volta, in un’occasione simile, la stessa osservazione semischerzosa.  Tacevano, stavano sdraiati con gli occhi aperti, sentendo la reciproca vicinanza-lontananza.  Dopo un certo tempo egli appoggiò la testa sul braccio, la osservò a lungo, come se riuscisse a vedere oltre le semplici fattezze esteriori del viso.
«Il tuo sogno!» disse a un tratto di nuovo, e fu come se lei avesse solo atteso quell’esortazione.  Albertine gli diede una mano; lui la prese e, secondo l’abitudine, più distrattamente che con tenerezza, tenne strette come per gioco nelle sue le sottili dita di lei. Ma ella cominciò: «Ricordi la stanza nella piccola villa sul Wòrthersee, dove stavo coi miei genitori l’estate del nostro fidanzamento?».
Fridolin annuì.
«Così è cominciato il sogno: sono entrata in quella stanza non so bene da dove… come un’attrice in scena. Sapevo soltanto che i genitori erano in viaggio e mi avevano lasciata sola. La cosa mi stupiva, poiché l’indomani si dovevano celebrare le nostre nozze. Ma l’abito da sposa non era ancora arrivato. O forse mi sbagliavo? Aprii l’armadio per accertarmene, invece dell’abito da sposa erano appesi una gran quantità di altri vestiti, o meglio costumi, di quelli che si vedono all’opera, sfarzosi, orientali. Quale di questi devo indossare per le nozze? pensavo. Ma ecco che l’armadio improvvisamente si è richiuso od è scomparso, non ricordo più bene. La stanza era tutta illuminata, ma fuori della finestra era notte fonda… A un tratto sei comparso tu, eri venuto per mare accompagnato da galeotti, li vidi mentre si allontanavano nell’oscurità. Indossavi preziosi vestiti d’oro e seta, avevi al fianco un pugnale con pendagli d’argento e mi prendesti in braccio portandomi fuori attraverso la finestra.
Adesso ero anch’io vestita splendidamente, come una principessa, stavamo all’aperto nella luce del crepuscolo e una nebbiolina grigia ci arrivava fino alle caviglie. Il paesaggio era quello a noi noto: da una parte il lago, sullo sfondo i monti, vedevo anche le ville, sembravano uscite da una scatola di balocchi. Noi due eravamo però sospesi in aria, no, volavamo al di sopra della nebbia, e io pensavo: questo è dunque il nostro viaggio di nozze. Poco dopo non volavamo più, camminavamo per un sentiero del bosco, quello che conduce alla Elisabethhöhe ed improvvisamente ci trovammo in alta montagna, in una specie di radura circondata da tre lati dal bosco mentre alle nostre spalle s’ergeva una ripida parete rocciosa. Ma sopra di noi c’era un cielo stellato così azzurro e sconfinato quale non esiste affatto nella realtà, e quello era il soffitto della nostra camera nuziale. Mi stringesti fra le braccia e mi amasti intensamente».
«Anche tu, spero» disse Fridolin con un invisibile sorriso maligno.
«Credo che ti amassi ancora più intensamente» rispose seria Albertine. «Ma, come spiegartelo…  nonostante l’intensità dell’abbraccio, la nostra tenerezza era molto malinconica, come per il presentimento di un dolore ineluttabile. A un tratto fu giorno. Il prato era chiaro e variopinto, il bosco tutt’intorno deliziosamente bagnato di rugiada, e sopra la parete di roccia tremolavano i raggi del sole. Per noi era però giunta l’ora di tornare di nuovo nel mondo, tra gli uomini.  Ma era accaduto qualcosa di terribile. I nostri vestiti erano spariti. Fui presa da un orrore senza pari, provavo una vergogna cocente fino all’annientamento interiore ed allo stesso tempo ira nei tuoi confronti, come se fossi tu il solo responsabile della sciagura; e tutti quei sentimenti: orrore, vergogna, ira, non erano paragonabili per intensità a nessuna sensazione che avessi mai provato da sveglia. Tu invece, conscio della tua colpa, scappasti via nudo com’eri per scendere a valle e procurare degli abiti. Quando sparisti mi sentii come più leggera. Non avevo compassione, né mi preoccupavo per te, ero contenta di essere sola, correvo felice sul prato e cantavo un motivo ascoltato al ballo in maschera. Avevo una voce meravigliosa e desideravo che mi sentissero giù in città. Non vedevo la città, ma sapevo della sua esistenza. Si trovava molto al di sotto di me, circondata da alte mura; era una città fantastica che non riesco a descrivere. Né orientale e neppure un’antica città tedesca e tuttavia un po’ dell’una e un po’ dell’altra, in ogni caso una città sepolta da tempo e per sempre.  Improvvisamente mi trovai distesa sul prato nella luce del sole, molto più bella di quanto sia mai stata in realtà, e mentre ero là uscì dal bosco un signore, un giovane in un vestito chiaro, moderno, rassomigliava un po’, ora me ne rendo conto, a quel danese di cui ti ho parlato ieri. Andava per la sua strada, si limitò a salutarmi molto cortesemente quando mi passò davanti, si diresse subito verso la parete rocciosa e la osservò attentamente, come se pensasse al modo di superarla.  Ma contemporaneamente vedevo anche te. Correvi nella città sepolta di casa in casa, di bottega in bottega, ora sotto portici ora per una specie di bazar turco e acquistavi per me le cose più belle che trovavi: vestiti, biancheria, scarpe, gioielli; e riponevi tutto in una borsa di cuoio giallo, piccola ma capiente. Ma eri sempre inseguito da una massa di gente, che non riuscivo a vedere, udivo solo le loro grida cupe e minacciose.
Ed ecco che ricomparve l’altro, il danese che s’era fermato prima davanti alla parete di roccia. Veniva di nuovo dal bosco verso di me, sapevo che nel frattempo aveva attraversato il mondo intero. Sembrava un altro ed era tuttavia lo stesso. Si fermò come la prima volta davanti alla parete di roccia, sparì di nuovo, poi riapparve dal bosco, sparì, riapparve; la scena si ripetè due, tre o cento volte. Era sempre lo stesso e sempre un altro, salutava ogni volta che mi passava davanti, finalmente si fermò, mi fissò con sguardo indagatore, io risi allettante, come non ho mai riso in vita mia, lui allungò le braccia verso di me, ora volevo fuggire ma non mi riuscì, ed egli cadde accanto a me sul prato».
Ella tacque. Fridolin aveva la gola asciutta, nell’oscurità della stanza notò che Albertine si teneva il viso come nascosto tra le mani.
«Uno strano sogno» disse. «È già finito?». E poiché lei fece cenno di no: «Allora continua».
«Non è così semplice» riprese Albertine. «Certe cose non si possono quasi esprimere a parole.  Dunque… avevo l’impressione di vivere una serie innumerevole di giorni e notti, non esisteva né tempo né spazio, non mi trovavo più nella radura chiusa dal bosco e dalla roccia, ma in una pianura ampia e sconfinata, ricoperta di fiori variopinti, che si perdeva da tutti i lati all’orizzonte.
Intanto da molto tempo – strano questo “da molto tempo”! – non ero più sola con quell’uomo sul prato. Ma non potrei dire se oltre me ci fossero ancora tre, dieci o mille coppie, se le abbia viste o no, se sia stata di quell’uomo soltanto od anche di altri. Tuttavia, come quel precedente sentimento di orrore e vergogna superava di molto tutto ciò che ci si può immaginare da svegli, così non c’è sicuramente nulla nella nostra vita cosciente che possa uguagliare la serenità, la libertà, la felicità che ho provato in questo sogno. Eppure non ti dimenticai neppure un attimo. Sì, ti vedevo, vidi quando fosti catturato, da soldati, mi pare, c’erano anche dei preti; qualcuno, un uomo gigantesco, ti legò le mani, sapevo che dovevi essere giustiziato. Lo sapevo senza provare pietà né orrore, con assoluto distacco.  Ti condussero in un cortile, una specie di cortile di castello. Adesso stavi là con le mani legate dietro la schiena e nudo. E come io vedevo te, sebbene mi trovassi altrove, così tu vedevi me ed anche l’uomo che mi teneva tra le braccia, e tutte le altre coppie, quella infinita marea di nudità che mi spumeggiava intorno e di cui io e l’uomo che mi teneva abbracciata eravamo, per così dire, solo un’onda. Mentre dunque eri nel cortile del castello, ad un’alta finestra ad arco fra tendine rosse comparve una giovane donna con un diadema sul capo e un mantello di porpora.  Era la principessa di quel paese. Ti lanciò uno sguardo severo e interrogativo. Eri solo, gli altri, per quanto fossero in molti, si tenevano in disparte, addossati ai muri, sentivo un mormorio, un borbottio insidioso e gravido di pericoli.
In quel momento la principessa si sporse dal davanzale. Tutti tacquero e la principessa ti fece un cenno, come a ingiungerti di salire da lei, sapevo che era decisa a graziarti. Ma tu non notasti il suo sguardo o non volesti notarlo. A un tratto, sempre con le mani legate, ma avvolto in un mantello nero ti trovasti dinanzi a lei, non in una sala ma sospeso, per così dire, in aria. La principessa reggeva in mano una pergamena, la tua condanna a morte, in cui erano anche annotate le tue colpe ed i motivi della condanna. Ti chiese non udivo le parole e tuttavia lo sapevo se eri disposto a diventare il suo amante, nel qual caso ti veniva rimessa la condanna a morte.  Scuotesti il capo in segno di diniego. Dal canto mio non mi meravigliai, la tua era una reazione perfettamente normale, né poteva essere altrimenti, dal momento che dovevi restarmi fedele per l’eternità e a costo di ogni pericolo.
Allora la principessa si strinse nelle spalle, fece un cenno nel vuoto e ad un tratto ti trovasti in un sotterraneo; fruste calavano sibilando su di te, ma non vedevo coloro che le agitavano. Il sangue scorreva come in ruscelli dal tuo corpo, lo vedevo scorrere, ero consapevole della mia crudeltà senza meravigliarmene. Poi si avvicinò a te la principessa. I capelli sciolti le ricadevano sul corpo nudo, reggeva in mano il suo diadema e te lo offriva… sapevo che era la ragazza della spiaggia danese che avevi visto una mattina nuda sul terrazzino di un capanno. Non pronunciò parola, ma la sua presenza, addirittura il suo silenzio miravano a sapere se volevi diventare suo marito e il principe del paese. E poiché rifiutasti di nuovo, improvvisamente sparì; ma io vedevo che stavano rizzando una croce per te; non nel cortile del castello, no, sull’immenso prato cosparso di fiori, dove giacevo tra le braccia di un amante, fra tutte le altre coppie d’innamorati.
Ti vedevo camminare solo per strade antiche, senza alcuna sorveglianza, ma sapevo che la tua via era tracciata e ogni fuga impossibile.
Ora salivi per il sentiero del bosco. Ti attendevo tesa, ma senza alcuna compassione. Il tuo corpo era coperto di striature, che però non sanguinavano più. Salivi sempre più in alto, il sentiero si ampliava, il bosco si ritirava da entrambi i lati, e adesso ti trovavi ai margini del prato a una distanza immensa, inconcepibile. Tuttavia mi salutasti sorridendo con gli occhi, come a significarmi che avevi esaudito il mio desiderio e mi portavi tutto ciò di cui avevo bisogno: vestiti, scarpe, gioielli. Io però trovavo il tuo comportamento oltremodo stolto e insensato, ed ero tentata di dileggiarti, di riderti in faccia, proprio perché, per essermi fedele, avevi rifiutato la mano di una principessa, sopportato torture ed ora salivi barcollando lassù per patire una terribile morte. Ti corsi incontro, anche tu camminavi sempre più in fretta – cominciai a sollevarmi in aria, anche tu volavi; ma improvvisamente non ci vedemmo più, lo sapevo: ci eravamo perduti. Allora desiderai che almeno sentissi le mie risa mentre ti crocifiggevano. E così scoppiai a ridere, con tutto il vigore e la forza di cui ero capace. Con queste risa mi sono svegliata…  Fridolin».
Tacque e rimase immobile. Anch’egli non si mosse e non parlò. Qualsiasi parola sarebbe sembrata in quel momento insulsa, mendace e vile. Quanto più lei procedeva nel suo racconto, tanto più ridicole ed insignificanti gli apparivano le proprie avventure, almeno sino al punto in cui erano giunte, e giurò di portarle a termine tutte, di raccontargliele poi fedelmente e vendicarsi così di quella donna infedele, crudele e traditrice, che aveva rivelato nel sogno la sua reale natura, e che in quel momento credette di odiare più profondamente di quanto l’avesse mai amata.
Allora si accorse di stringere ancora fra le mani le dita di lei e, sebbene fosse deciso a odiare quella donna, sentiva per le sue dita sottili, fredde e così familiari una tenerezza immutata, divenuta soltanto un po’ dolorosa; e istintivamente, quasi contro la sua volontà, prima di sciogliere dalle sue quella mano familiare, la sfiorò dolcemente con le labbra.
Albertine non apriva ancora gli occhi, Fridolin ebbe l’impressione che ella sorridesse con un’espressione di felicità trasfigurata e innocente e provò un inspiegabile desiderio di chinarsi su di lei e baciarla sulla fronte pallida. Ma si dominò, sentendo che quel suo stato d’animo derivava solo dalla ben comprensibile stanchezza dopo gli sconvolgenti avvenimenti delle ultime ore; nell’ingannevole atmosfera della stanza matrimoniale quella stanchezza s’era tramutata in struggente tenerezza.
Tuttavia, comunque si sentisse in quel momento, qualunque decisione avesse preso nel corso delle prossime ore, l’urgente imperativo del momento era: rifugiarsi, almeno per un certo tempo, nel sonno e nell’oblio. Anche la notte successiva alla morte della madre aveva dormito, aveva potuto dormire profondamente e senza sogni, perché mai non doveva riuscirgli ora? Si stese vicino ad Albertine che sembrò già essersi assopita.
Una spada tra noi, pensò di nuovo. E poi: sdraiati fianco a fianco come nemici mortali. Ma erano solo parole.