Di Marco Crestani
John Fante, per ritmo e voce, è stato un fratello maggiore di tanti immigrati in America, lo scrittore che forse più di tutti ha incarnato le loro speranze, i sogni e le tante insicurezze (con uno stile pulito e fresco di scrittura, intriso di impassibile humour).
Nella prima parte della sua carriera letteraria, Charles Bukowski andava in giro dicendo di essere Arturo Bandini in omaggio a Fante e fu determinante nel farlo ristampare alla fine degli anni ’70, poco prima della sua morte (avvenuta nel 1983).
Oggi molti si riferiscono a lui come a uno dei romanzieri quintessenza della città di Los Angeles come Raymond Chandlero Nathanael West (il cui Il giorno della locusta è stato pubblicato nel 1939, lo stesso anno di Chiedi alla polvere).
Anche Michael Tolkin (autore de Il giocatore) è un ammiratore (di lunga data) di Fante e recentemente, in un’intervista al Los Angeles Times, ha detto che, se fosse per lui, Chiedi alla polveresarebbe una lettura obbligatoria nelle scuole.
Libereditor’s Blog ha intervistato Emanuele Pettener, insegnante di lingua e letteratura italiana alla Florida Atlantic University di Boca Raton negli Stati Uniti, che da poco ha pubblicato Nel nome del Padre, del Figlio, e dell’Umorismo: i romanzi di John Fante (Franco Cesati Editore, 2010) in cui analizza il prodotto artistico di John Fante attraverso la lente dell’umorismo e della satira, due aspetti troppo spesso trascurati nella sua opera.
(L.B. sta per Libereditor’s Blog, E.P. per Emanuele Pettener)
(L.B.): “Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d’albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell’albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce a andandomene a letto.
Al mattino mi svegliai, decisi che avevo bisogno di un po’ di esercizio fisico e cominciai subito. Feci parecchie flessioni, poi mi lavai i denti. Sentii in bocca il sapore del sangue, vidi che lo spazzolino era colorato di rosa, mi ricordai cosa diceva la pubblicità, e decisi di uscire a prendermi un caffè.” (da John Fante, Chiedi alla polvere)
Si dice sia un incipit perfetto per un romanzo perfetto…
(E.P.): Oh, Chiedi alla polvere! Chiunque può ritrovarvi la propria giovinezza. I desideri, l’ambizione, la solitudine, il contrasto lacerante fra quel che vorremmo essere e quel che siamo agli occhi degli altri e di noi stessi. E l’America. Pochi scrittori evocano l’America come sa fare Fante, quella dorata e calda, che impregna la nostra fantasia sin da adolescenti. E quel finale, così struggentemente poetico, con il libro gettato nel deserto e Camilla che si dissolve – come il primo amore, come la giovinezza, come il sogno americano. E l’umorismo pirandelliano, che attraversa queste prime righe e l’intera opera di Fante (con l’eccezione di Full of life) grazie al quale noi lettori sorridiamo e ci divertiamo mentre leggiamo storie per nulla allegre, storie dure, fatte di miseria e illusioni spezzate.
Ma qui vorrei render merito e gratitudine ai traduttori di John Fante (in questo caso Maria Giulia Castagnone) per averci conservato e offerto, con mirabile talento, il calore e la grazia della sua prosa.
(L.B.): Tralasciando Chiedi alla polvere quali sono le opere di John Fante che lei apprezza di più?
(E.P.): Il mio cane Stupido e La confraternita del Chianti (titolo che preferisco a quello einaudiano La confraternita dell’uva, più fedele ma meno efficace, considerata la storia). Ritengo questi due romanzi persino superiori a Chiedi alla polvere per architettura, bellezza, e profondità psicologica. Il primo è una critica corrosiva all’America hippy degli anni ’60: un bolide contro il mito, una disamina al vetriolo sul conformismo dell’anticonformismo, la miccia innescata dell’umorismo alle radici del sogno americano. Ed entrambi sono un ritratto straziante, indimenticabile, del rapporto padre/figlio.
(L.B.): John Fante è oggi un autore apprezzato da pubblico e critica. Perché la sua arte è stata così spesso sottovalutata quando era in vita?
(E.P.): Oltre le vicissitudini del destino, mi piace cercare una ragione, per così dire, antropologica.
Tutti i romanzi di Fante, Full of life a parte, sono permeati, come ho sottolineato, di umorismo; l’umorismo, secondo l’accezione che ne dà Pirandello (ripresa fra gli altri da Milan Kundera nei suoiTestamenti Traditi) indaga l’esistenza umana senza farsi vessillifero di alcuna verità, al contrario di satira ed ironia; l’umorismo esplora, s’interroga, ritrae – ma non dà risposte, non ha messaggi da lanciare, non riconosce alcuna Verità.
Nei romanzi di Fante, Full of life a parte – qui non abbiamo spazio per esempi, ma per chi fosse interessato rimando al mio saggio – quasi ogni scena è ribaltabile, si apre a diverse interpretazioni, la chiave è consegnata al lettore, e non vi è mai, se non in Full of life, un messaggio di alcun tipo che l’autore impone.
Ora, gli Americani all’umorismo di stampo pirandelliano sono sordi – le cose o sono bianche o sono nere. Sono un popolo giovane e infatti sono come i giovani: privi di umorismo (non per niente tutti vorremmo tornare ad avere 20 anni, ma con la testa dei 40). Gli Americani sono come Arturo Bandini (l’umorismo appartiene al suo autore, non certo a lui – da qui i suoi eccessi e i suoi complessi). Gli Americani hanno bisogno di Verità con la V maiuscola: Ophra Winfrey ogni giorno consegna certezze e risolve enigmi, gli scaffali sono zeppi di manuali how to do e how to be, un’espressione come America Terra di Libertà non può essere minimamente messa in discussione, malgrado la Storia. E la Verità più pura e insindacabile è l’American Dream: la possibilità che si possa farcela partendo da zero grazie solo ed esclusivamente al proprio lavoro e al proprio talento. Un’idea ridicola per noi cinici Italiani, che diffidiamo per natura da ogni parola con la maiuscola.
Ebbene, la prosa di Fante, attraverso la trappola sottesa dell’umorismo, semina dubbi e carica di ambiguità anche il sogno americano: rinuncia a farlo solo in un romanzo, Full of life, dove invece se ne fa portabandiera, eliminando ogni forma di umorismo – ogni ambiguità – imponendo al lettore redenzione, lieto fine, e un solido e indiscutibile messaggio morale. Ebbene, l’unico romanzo senza umorismo e con un messaggio, Full of life (che Fante ammise essere un cattivo romanzo, scritto solo per soldi) fu l’unico romanzo di Fante che ebbe successo popolare negli Stati Uniti.
L’Europa tuttavia ha scoperto e amato Fante – e vorrei ricordare, rifacendomi ancora al testo citato di Kundera, che l’umorismo è stato inventato da un Europeo, Cervantes, e che le opere dei maggiori autori europei, da Proust a Kafka a Joyce, sono pervase da umorismo.
(L.B.): Ma è stato davvero Charles Bukowski a scoprirlo e a “inventarlo” come diceva Fernanda Pivano?
(E.P.): Bukowski ha il merito d’aver fatto leggere Fante al suo editore, che non lo conosceva e decise di ristamparlo dopo decenni di silenzio. E di scrivere una prefazione ad Ask the Dust che è diventata celebre. Ma di Fante Bukowski, come molti fantologi, non capisce che dietro la scrittura così diretta di Fante c’è un robusto lavoro d’artista, raffinata scelta di strumenti retorici e labor limae. Fante adopera del materiale autobiografico, ma il suo scopo non è certo l’autobiografia né tanto meno, come sostiene un critico, la confessione: a Fante interessa solo ed esclusivamente un risultato estetico, ricavar bellezza dalla prosaicità dell’esistenza, l’oro dal fango. Scrivere come scriveva Fante non è facile come sembra: ci vogliono talento e lavoro, non basta metter sul piatto le proprie budella. Bukowski, sopratutto, non comprese la lezione umoristica di Fante. Con l’eccezione dell’ultimo romanzo, Pulp, dove Bukowski, stufo di raccontare le proprie sbronze e le proprie scopate, mette in scena un Bandini invecchiato e ingrassato (con notevoli sbalzi d’umore, tipici del suo archetipo) nei panni dell’investigatore Nick Belane – e tira fuori, secondo me, il suo libro migliore.
(L.B.): Pensa che la sua “italoamericanità” possa rappresentare una discriminante della sua opera?
(E.P.): L’italoamericanità è solo uno dei mille colori nella tavolozza del Nostro. Anche qui, non gli interessa nessun tipo di discorso sociale: gli interessano le scintille poetiche che sprizzano al cozzare di queste due identità, l’italiana e l’americana. Nei romanzi di Fante non viene quasi mai rappresentato il pregiudizio nei confronti dell’Italoamericano: viene invece ritratta e scandagliata la mente dell’Italoamericano, il suo dibattersi fra desiderio di appartenenza alla cultura dominante e richiamo delle radici, il suo rancore e la sua attrazione per entrambi i poli – il suo non esser più Italiano e non ancora Americano, il suo vivere in mezzo.
(L.B.): Diverse persone che conosco si sono avvicinate a Chiedi alla polvere spinte dalla curiosità. Ricordo uno in particolare che, appena finito di leggere Martin Eden di Jack London, sperava di ritrovare in Arturo Bandini una certa affinità con Martin, figura solare, romantica, personaggio incantevole. Arturo però non ha niente del giovane e romantico Martin…
(E.P.): No, l’affinità va cercata con l’io narrante e senza nome diFame, capolavoro del 1890 di Knut Hamsun, edito in Italia da Adelphi. Chiunque vi riconoscerà subito Arturo Bandini, quasi cinquant’anni prima e in giro per le gelide strade di Christania, Norvegia, anziché Los Angeles, California. Arturo deve tutto a lui, la somiglianza è palese, e infatti Fante adorava il libro di Hamsun, lo conservava come una reliquia che nessuno dei famigliari poteva toccare, e nell’ultima pagina del suo ultimo romanzo, Sogni di Bunker Hill, Arturo chi prega per ritrovare la propria ispirazione? Prega Dio e Knut Hamsun.
(L.B.): Quando si parla di John Fante ci sono spesso opinioni discordanti.
“Fonte o lo ami o lo odi o non lo capisci”, diceva un suo lettore in un forum sul web qualche tempo fa. “Per quanto mi riguarda è stato amore a prima vista. Un amore immenso, debordante, totalmente irrazionale. Amore proprio in quanto sensazione empatica impossibile da spiegare a parole.”
Certo che è difficile dimenticare la sensazione di intensità che Fante trasmette in ogni sua parola…
(E.P.): L’appena menzionato Sogni di Bunker Hill venne dettato da Fante alla moglie, trovandosi lui cieco e senza gambe, amputate a causa del diabete. Eppure aveva ancora voglia di raccontarci una storia. Di combinar parole. Questo mi commuove. L’intensità della scrittura di Fante è dovuta, io credo, al fatto che Fante era un vero storyteller: scrivere per lui era sommo divertimento, gioia, piacere infinito di condividere storie. Non era un intellettuale: era un artista.