«Sento dei rumori provenire dal piano di sopra».
«E’ sicuro non si tratti del vicino?»
«Abito in una mansarda».
«Indirizzo?»
«402 Saint Chandler Avenue, Monterey Park».
«Le mandiamo una volante».
«Grazie».
Erano le due del mattino. Riuscii a vedere con chiarezza la porta d’ingresso scardinarsi di netto dal muro e la luce del corridoio colorare di bianco la stanza, accecandomi. Entrarono in quattro, armati, con il volto coperto, lasciando intravedere solamente gli occhi, l’incavo superiore del naso e la fronte.
Il primo si diresse guardingo verso l’altra stanza e gli altri si scaraventarono senza esitazione sul mio letto. Uno mi schiacciò con forza la faccia contro il materasso dopo avermi cacciato un fazzoletto in gola - aveva la fronte imperlata di sudore e un alito che avrebbe ucciso un cinghiale – mentre altri due mi immobilizzarono prima le mani e poi le caviglie ma non riuscii a vederli immediatamente. In meno di trenta secondi mi avevano legato e impacchettato come un cliente sadomaso alla vigilia di una notte di lungo divertimento.
Accesero la luce e riuscii finalmente a capire quanti fossero. Alla mia sinistra il tale che ispezionò l’altra stanza si sistemò accanto alla porta scardinata, puntandomi la pistola contro. Era alto circa un metro e novanta, capigliatura fulva e le braccia più lunghe di quelle di una scimmia. Il tizio dall’alito di rosa si mise in piedi alla sinistra del letto mentre i suoi compari si accomodarono alla mia destra su entrambi i lati della finestra con il viso rivolto verso l’esterno. Mi dimenai nel tentativo di allentare le corde ma fu inutile. Dallo specchio appeso sullo scrittoio, davanti al letto, vidi riflessa la sagoma di un marcantonio col cappello. Entrò indifferente e disinvolto nella stanza, si abbassò il bavero e si sfilò lentamente l’impermeabile. Era enorme, era nero ed era visibilmente incazzato. Andò verso il guardaroba, prese una gruccia e con meticolosa precisione vi sistemò il soprabito, riponendolo poi nell’armadio. Prese il cappello e lo lasciò cadere sullo scrittoio. Approfittando dello specchio, fece un ghigno sollevando il lato sinistro del labbro superiore, sistemò meglio il grosso anello che portava all’anulare sinistro e poi tornò serio.
Il gigante si diresse lentamente verso di me. Con un’espressione tipica di chi ha i minuti contati e non sa se le proprie mutande reggeranno lo stress, lo guardai avvicinarsi. Mi fece scendere dal letto tirandomi per i capelli e, una volta a terra, senza mollare la presa, mi sollevò in aria, a dieci centimetri da terra, con una flemma felina e lo stesso sforzo con cui si solleva una lanterna a olio. Era mancino.
«Sai chi sono io?» Mi disse con voce roca e avvicinando il mio naso a un paio di centimetri dal suo.
Scossi la testa e cercai di emettere un suono che assomigliasse a un no.
«Sono la voce della tua coscienza» continuò lui «e dovresti ascoltarla se non vuoi uscire da questa stanza passando per la finestra. Dov’è Marlowe?»
Gli sputai il fazzoletto in faccia e gli urlai con tono isterico: «Chi cazzo è Marlowe?»
«Cominciamo male», fece lui asciugandosi una goccia di saliva sullo zigomo sinistro.
Vidi il letto passare velocemente sotto di me senza riuscire a toccarlo, la lampada sul comò frantumarsi a terra, per poi finire a testa in giù a circa un metro di distanza dai piedi del divoratore d’aglio, che non si scompose. La camera era capovolta e, mentre cercai di capire se ciò che vedevo fosse un pezzo di ceramica o un dente, il gigante mi afferrò per i piedi e mi trascinò fino alla fine del letto. Tutti i suoi gesti erano lenti e spontanei come se il suo lavoro quotidiano si riducesse a sfondare porte, pestare persone e cercare i “marlowe” sparsi per la città.
Mi sollevò nuovamente in aria e ripeté la domanda. La mia risposta fu identica alla precedente ma, a quanto pare, non fui molto convincente perché stavolta il letto non lo vidi neanche. Anche l‘altra lampada si frantumò ma quantomeno atterrai sul morbido e ringraziai mentalmente mia nipote di avermi tormentato un mese per comprarle un panda di peluche gigante. Cercai di alzare la faccia per chiedere nuovamente di chi stesse parlando ma fui colpito in pieno da qualcosa che aveva la forma di una pigna e la consistenza del marmo. La mia faccia di nuovo a terra e la consapevolezza che stavolta c’era veramente un dente davanti ai miei occhi. Sentivo il sapore del sangue e ne sputai una buona dose. Mi arrivò un calcio al centro del plesso solare, tanto forte da farmi sputare la bile e poi un altro ancora più forte. Cominciai a tossire e a rantolare in cerca d’ossigeno. Il gigante mi sollevò di nuovo per i capelli. Stavo per svenire ma le sue sberle che rintoccavano sempre sullo stesso lato della faccia non me ne davano il tempo. Poi si fermò e, per un attimo, quel fuoco che sentivo ardermi il viso si alleviò.
«Dov’è Marlowe?» disse il gigante con lo stesso identico tono con il quale aveva pronunciato questa domanda la prima volta. Nessuna fatica, nessuna frustrazione o alterazione dovuta al mio diniego sembrava trapelare dalla sua voce.
Prese la sedia dello scrittoio, la sistemò al centro del tappeto ai piedi del letto e mi fece sedere rivolto verso la finestra, tra i due sgherri di spalle. Lo sentii borbottare con qualcuno dietro di me, credo lo smilzo, poi un attimo d’interminabile silenzio. Con il dorso della mano sinistra mi diede un mal rovescio così forte sulla tempia che le mie orecchie smisero di fischiare e cominciarono ad applaudire.
«Il mio amico propone di darti una ripulita alla faccia perché fa fatica a riconoscerti. Che ne dici? Ci diamo una rinfrescata?» disse il nero.
Non fui felice di sentire la parola “rinfrescata” pronunciata in quel modo. Mi prese nuovamente per i capelli, o per ciò che ne restava, e mi trascinò nel bagno dove “alito di rosa” si stava giustappunto riallacciando i pantaloni. Il gigante mi sistemò in ginocchio con la faccia rivolta verso la tazza del gabinetto.
«Dov’è Marlowe?» Mi disse.
«Chi cazzo è Marlowe?» Gli risposi mio malgrado intuendo cosa sarebbe accaduto di lì a poco. Poi il silenzio. Lo stesso silenzio di prima e lo stesso bruciore manifestarsi stavolta sulla guancia sinistra. Era evidente che il bagno fosse troppo piccolo per muoversi agevolmente ma il risultato fu comunque doloroso.
Per un attimo vidi la mia faccia riflessa allo specchio. Con il suo anello d’oro massiccio mi aveva stampato un paio di sorrisi su entrambi gli zigomi. L’occhio sinistro era tumefatto già dal primo volo oltre il letto e dal lato destro della bocca continuava a pendermi un laccio rosso porpora. Quel figlio di cagna mi aveva spezzato di netto il canino e l’incisivo sinistro.
Non riuscii a finire il pensiero che la mia faccia si riflesse non più sullo specchio ma su quel laghetto d’oro lasciato dal compare dalla digestione sofferta.
«Dov’è Marlowe?»
«Chi è M…» e giù la prima volta.
Feci l’impossibile per non aprire la bocca ma è difficile quando dietro di te c’è qualcuno che si sta divertendo a prenderti a calci tra le gambe. Il sapore dell’urina era disgustoso non tanto per il sapore stesso quanto per il ricordo del suo proprietario.
Allentò la presa sulla testa e tornai a respirare, illudendomi di essere stato convincente.
«Dov’è Marlowe?» Disse nuovamente il gigante e, questa volta senza darmi il tempo di rispondere né di riprendere fiato, mi spinse giù di nuovo.
«Dov’è Marlowe?» Tra sangue e urina la mia faccia sembrava quella di un altro.
«mavaffanculopezzodimerdarottoincu…»
In mancanza della risposta corretta, la reazione fu la stessa delle precedenti ma stavolta prese male la mira e il mio labbro fece da cuscinetto tra gli incisivi e il bordo del water.
Il gigante mi afferrò nuovamente per i capelli e la sua mano aveva preso la distanza giusta per regalarmi una nuova carezza, quando “alito di rosa” gli disse: «capo, ci sono gli sbirri. Il pezzente deve averli chiamati poco prima che arrivassimo».
Il gigante non rispose. Si diresse con la stessa flemma di prima verso l’armadio, recuperò il suo soprabito e scomparve dietro l’angolo del bagno. Lo sentii armeggiare con i cassetti dello scrittoio e, mentre calzava con meticolosa precisione il suo cappello, mi disse: «c’hai convinto, non sai niente ma, per ricordarti di me, ti ho lasciato un biglietto da visita nella scrivania».
Con la faccia a terrà e un rivolo di sangue che si ramificava davanti alla mia bocca ebbi giusto la forza per dire «faf…fan…culo».
Dopo qualche minuto entrarono due agenti. Il primo controllò la stanza e l’altro, vedendomi a terra, si chinò velocemente accanto a me e mi slegò i polsi.
«Sa chi è stato? Perché l’hanno ridotta così» mi disse.
«Cer…ca…vao un cer…to… Mal...lowe» risposi.
«Marlowe? Philip Marlowe, il detective? E dov’è?»
«…fa…ffan...»
«Da che parte sono andati?»
«non… lo so… ma han…no la…ssato qualco…sa nella scriva…nia»
«Ehi, Carl, controlla nella scrivania, forse c’è qualcosa»
Dopo un attimo di silenzio, un urlo squarciò la notte.
«Tutti fuori! Bomb…»