Quando l’Editore e la Direzione mi hanno chiesto di scrivere un editoriale sulle elezioni europee, ho subito accettato di buon grado. I motivi sono molteplici; in primo luogo, queste elezioni hanno rappresentato per me un bellissimo momento di partecipazione. Mi scuserà il lettore se questo pezzo avrà tinte segnatamente personali, ma mi occupo di Europa da qualche anno ( rectius, di Stati Uniti d’Europa) e, in preparazione a queste elezioni, ho incontrato tantissime persone. Studenti, anziani, lavoratori, disoccupati. A tutti ho provato a spiegare perché di Europa si debba parlare, possibilmente senza tendenze demolitrici. Ho provato a sondare il pensiero dell’elettorato, ancorché su un campione ristretto. Ho provato a capire su cosa si basa il dissenso verso una maggiore integrazione.
In secondo luogo, questo pezzo mi viene chiesto dalla Direzione di un giornale che prova a cambiare. Iniziare un progetto ambizioso con le sole forze di un gruppo di giovani non è facile; di errori ne abbiamo fatti, ora proviamo a migliorare. Scusate il ritardo, come si suol dire. E allora, proprio perché puntiamo a dare il nostro contributo all’informazione in un contesto in profonda rivoluzione ( i cui esiti non sono chiari nemmeno agli addetti ai lavori più blasonati), io vorrei iniziare con questo contributo, nella speranza che possa esser qualcosa di peculiare rispetto a ciò che agevolmente trovereste su un qualunque portale di informazione.
Non voglio sciorinare dati, percentuali, né tantomeno indugiare su cosa cambia a livello di equilibri politici interni, facendo finta di aver previsto tutto già prima del voto. Vorrei, invece, riflettere su dove stia andando l’Unione.
Inizio con gli euroscettici. Il termine stesso meriterebbe ben più di un approfondimento: l’euroscetticismo non è un fenomeno unitario. Molto spesso ha delle connotazioni nazionaliste che non sono da sottovalutare, poiché preoccupantemente vicine all’estremismo. Poi c’è chi, riassumendo in slogan, “non è contro l’idea di Europa, ma contro questa Unione Europea”. Espressione usata da molti, nei programmi o nelle interviste, al punto da aver perso quasi di senso per il suo fermarsi alla pars destruens, senza nulla aggiungere circa il futuro del Vecchio Continente. In ogni caso, il fatto che abbiano ottenuto buone percentuali è, a mio giudizio, tutto sommato una notizia poco preoccupante. Mi spiego: il fenomeno del dissenso verso l’integrazione era pressoché nullo, in passato. Il fatto che i dati premino questo genere di formazioni politiche, rispetto al 2009, non vuol dire nulla, dato che il sentimento è nato dopo nell’opinione pubblica. Se, poi, pensiamo al prossimo quinquennio con un po’ di ottimismo, la crisi verrà superata; con che costi e quanto in fretta sarà il problema politico d’attualità. Comunque, il ridimensionarsi della causa scatenante la protesta non potrà che diminuire la protesta stessa.
Vi è poi un giudizio più di carattere istituzionale; un giovane ricercatore del Centro Studi sul Federalismo di Torino mi disse, in merito a questo tema, che la pretesa da parte degli euroscettici di arrivare a Strasburgo era un ottimo segnale, dato che stavano implicitamente legittimando l’istituzione stessa riconoscendola come il luogo dell’agone politica dei giorni nostri. Subito non mi convinse: era troppo facile pensare al “poltronismo” che spesso anima alcuni rumorosi politici. C’è chi semplicemente cambia casacca per cavalcare una protesta, mi dicevo. Poi ci ho riflettuto meglio: sì, c’è una protesta che pretende di arrivare in Parlamento per esprimersi. Alla dinamica democratica dell’Unione farà bene farci i conti. Infine, l’astensionismo: se torneranno a salire i votanti, le percentuali dei nazionalisti e antidemocratici ( che sono appunto calcolate su chi si è espresso) saranno verosimilmente ridimensionate.
Più in generale, chi crede nell’integrazione ha ampiamente vinto. Questo non vuol dire che tutto vada bene così, anzi. Questo è il momento di imprimere un significativo passo in avanti; una rapidità quasi rivoluzionaria, se si considera la naturale lentezza di questo processo. In questo senso, da appassionato, percepisco il vento del cambiamento. Più razionalmente, si deve constatare comunque una certe continuità, visibile nel PPE che si impone con maggioranza relativa. È la famiglia politica del centro destra, avanti già nelle precedenti legislature, non severa con le politiche di rigore ( per quanto semplicistica sia la definizione) ancorché in campagna elettorale abbia parlato diffusamente di crescita.
In questa fase, l’Italia potrà essere attore principale. Lo dicono i risultati di ieri, lo dice la congiunzione astrale che ci vuole proprio ora Presidenti di turno al Consiglio dei ministri dell’Unione ( l’organo, importantissimo e con ampie funzioni, composto dai ministri dei paesi membri ha una presidenza semestrale, a rotazione: quella italiana inizierà il 1 luglio).
Una bella responsabilità; ma prendiamocela senza timori, dopotutto ieri in questo paese si è avuto un voto responsabile, più che altrove, e pure in controtendenza rispetto a una campagna elettorale dalle tinte fosche e bercianti.
Essere Presidenti vorrà dire fissare l’agenda, le priorità. Vorrà dire esser motore dell’integrazione necessaria per competere in un mondo globalizzato, davanti a partner continentali, o responsabili della stagnazione. Vorrà dire fare tutto quanto è in nostro potere perché la prossima Commissione sia politica, più che un compromesso tra Governi. Già, la Commissione: al Consiglio Europeo ( i 28 capi di stato e di governo) vorrebbero nominare il presidente della Commissione come sempre si è fatto, con un accordo unanime tra istanze provenienti dalle varie capitali. Ma stavolta è diverso, si era detto. C’è stato il Trattato di Lisbona con il suo “il Consiglio Europeo nomina il presidente della Commissione tenuto conto del risultato elettorale”. Tenuto conto. Cioè, scegliendo tra i leader delle famiglie politiche.
A proposito, nessun leader si è imposto con maggioranza assoluta, come si accennava sopra ( ah, tra le priorità perché non una legge elettorale unica europea, che garantisca uniformità di risultati, magari con delle correzioni al proporzionale). Quindi, posto che il Consiglio Europeo non decida di sprecare questa partecipazione alle urne, chi scegliere tra i leader? Junker del PPE? Schulz, del PSE, in conformità con la grande spinta socialdemocratica di Germania e Italia?
Questa è una partita aperta; la spunterà chi sarà un grado di formare una coalizione solida in Parlamento. A tal proposito, non si smetta di fare attenzione a quanto accade a Bruxelles, finita la campagna elettorale. L’ Ue ha bisogno di un dibattito pubblico costante e consapevole.
Ma allora dove va l’Unione, al netto degli anti integrazione e del conservatorismo degli stati nazionali?
Io mi sento di dire che la battuta d’arresto non c’è stata. Non vi offendete se vi tacciamo di demagogia, voi col mito della sovranità nazionale. Davanti al mondo globalizzato, unirsi o perire. Ed è importante che sia l’Europa ad unirsi, perché qui abbiamo costruito tanto e potremmo esser un modello per tanti. Il modello sociale europeo, il benessere, le Costituzioni più raffinate. Non è opportuno farsi spazzare via dalla Storia, perché cocciuti nel difendere la Sovranità, categoria politica del Rinascimento.
In conclusione, l’Unione è, se sa capire da dove nasce l’astio verso questo nobile progetto e se deciderà di intervenire. L’Unione è, se ha il coraggio di apprezzare la partecipazione, e in un certo senso la fiducia, che molti cittadini le hanno dato. L’Unione è, se si assume la responsabilità di fare l’attore globale verso la disoccupazione, l’ambiente, le crisi internazionali, il welfare. A quel punto, il ritorno dei fascismi sarà un ricordo sfocato, forse pure ingeneroso.