Intendiamoci, Umbras de Barbagia non è la reinvenzione della ruota. Da un lato non si può negare che il manico ci sia: la produzione rende, il lavoro di chitarra è sempre ispirato e perfino la drum machine e gli strumenti campionati suonano corposi e organici. Ma lo spazio di manovra resta pur sempre quello ristrettissimo del black metal atmosferico contemporaneo (che già di suo non è che una variazione sul tema di Filosofem che va avanti da vent’anni) e il disco ne rispetta pedissequamente tutti i canoni, specialmente la tendenza a dilatare all’infinito la durata dei brani quasi per principio. E proprio questo fa emergere il limite principale dell’album: il fatto che i Downfall of Nur, quando spingono sull’acceleratore, non suonano diversi da mille altri gruppi di simile estrazione; convincono (perché l’abilità c’è), ma senza sconvolgere. È invece nelle parti più dilatate che il tutto decolla veramente e ogni volta che il muro di chitarre e blast beat cede il passo al lamento ossessivo dei flauti e delle launeddas, è facile sentire in Umbras de Barbagia lo stesso brivido che animava le prime opere dei Moonspell o di certi gruppi greci dei bei tempi. Non è cosa da poco.
È un disco di maniera? In parte sì. Eppure funziona, e soprattutto emoziona, a dimostrazione del fatto che talvolta mettere (consapevolmente o meno) un limite alla propria creatività paga, a patto che si abbia davvero qualcosa da trasmettere, in questo caso, un amore e una nostalgia profondi per la terra che si è dovuta lasciare. E se lo spirito del black metal nasce nel gelo e nel buio degli inverni scandinavi, a maggior ragione è bello vedere qualcuno che riesce a usare gli stessi cliché per cantare cose più vicine alle proprie radici, che siano leggende, pagine dimenticate di storia, o anche solo il torpore del mezzogiorno, il sole a picco e la malinconia di certi paesaggi bruciati dal vento. Perché possiamo raccontarcela finché vogliamo, ma siamo nati mediterranei e non possiamo morire vichinghi, ed è pure giusto che sia così.
In questo senso sì, Umbras de Barbagia è più della somma delle sue parti, è un mezzo capolavoro (anche e soprattutto in virtù dei suoi limiti) e rimane – assieme all’ottimo Lupercalia dei Selvans – l’unica uscita black che ho ascoltato con vero piacere nel 2015. Ad maiora. (Andrea Bertuzzi)