Nel 2012 come agli esordi, ma per motivi diversissimi, Van Damme, star un po' in disuso, diventa coprimario di un action diretto da John Hyams, autore del deludente Universal soldiers regeneration. John è figlio del regista di Timecop, una delle vette più celebri e nobili della filmografia del belga, e finora il confronto col padre era stato impietoso.
Finora.
Van Damme, dopo JCVD, non passa un bel momento, certo non paragonabile al periodo post Tsui Hark che lo farà sprofondar nel bieco B movie senza gloria, ma insomma non fatto proprio, almeno a livello di budget, di grandi produzioni. Certo le ultime cose, soprattutto Assassination games con l'altrettanto straordinario ex Boyka, Scott Adkins, sono buoni film, ma la fotografia, le location bulgare, gli attori fanno percepire un'aria abbastanza miserabile di B movie non proprio pensato per il cinema. Certo c'è Van Damme, l'uomo capace di rendere vendibile pure una cosa immonda come Second in command, ma si capisce che, con i suoi capelli sempre più bianchi e radi, con le rughe marcate sul viso, l'attore sente il bisogno di ruoli più maturi dell'atleta famoso per le sue spaccate. JCVD di Mabrouk El Mechri è il punto di non ritorno, la consapevolezza di aver toccato le stelle e, per colpa di scelte sbagliate da testa di cazzo, droga, violenza, voglia solo di soldi, di essersi sporcato l'immagine, di aver deluso, per citare il film, “il suo dojo”. Ecco quindi che il post JCVD è fatto di interpretazioni pacate, di meditazioni prima che di pestaggi, di personaggi tormentati che hanno, come il nostro Gianni Claudio, toccato l'inferno e ne sono stati segnati per sempre.
Dragon eyes è carne e sangue, il suo attore protagonista è intercambiabile con un soprammobile, ma, Madonna santa, quando mena che furia! Non si vedeva da tanto un film con una tale rabbia nei pestaggi, con una tale dose di realismo da far sentire nelle propria ossa le fratture. Cung Le, lottatore professionista, con la sua faccia antipatica e il viso segnato dalla vita è il simbolo di un film che vive una strana alchimia di elementi sbagliati che incontrano il meraviglioso. Ecco che un gigionesco Peter Weller diventa quasi Al Pacino in un ruolo da mafioso italiano che urla incazzato parolacce nel nostro idioma, “Cazzo”, “Vaffanculo”, “Figlio di puttana”, con accento sbagliato, un po' come quando Anthony Wong in Beast cops biascicava insulti coatti. Genio.
Eccola la fotografia sbiadita da film di terzo mondo che impreziosisce l'aria da apocalisse che la pellicola ha nell'anima. Ecco che le varie gang antagoniste ricordano con nostalgia più un Albert Pyun all black come The Wrecking Crew che un brutto parto di The Shield. Ecco che le scene alla Guy Ritchie acquistano una dimensione tutta originale nella messa in scena così potente di John Hyams, l'uomo che davvero avevamo odiato la prova precedente e che ora potrebbe essere l'arcangelo Gabriele. Dragon eyes è senza dubbio un film imperfetto, ma senza questa imperfezione, senza i suoi sbilanciamenti, senza la trama che capisci una volta si e cento no, senza le sue coreografie che fanno il culo ai vari Explendables, senza Van Damme ombroso e teatraleggiante, senza un protagonista che se ride o piange è lo stesso, senza il “Cazzo” urlato alla fine nel sangue da Weller, no non sarebbe stato lo stesso.
E allora questa volta sporchiamoci con gusto nella melma del B movie più bello degli ultimi anni. Felici di essere serie B naturalmente.