Dragonheart – Rob Cohen (1996)

Creato il 20 gennaio 2012 da Senziaguarna

Diciamocelo francamente: abbiamo fatto indigestione di effetti speciali.
Sembra che, nei film di fantasia (soprattutto americani) degli ultimi anni, la trama sia solo un pretesto per far sfoggio dei prodigi della computer graphic e di immagini in 3D. Si vuole a tutti costi far sembrare vere anche le cose più impossibili; e alla fine, tra colori cupi, tempeste di fuoco in campo nero e mostri assurdamente mostruosi, niente sembra reale.
Coloro che nel 1996 erano bambini o ragazzi ricorderanno ancora lo slogan che accompagnò l’uscita nei cinema del film Dragonheart di Rob Cohen: “Primo film con un personaggio interamente creato al computer“.
All’epoca sembrò una novità pazzesca: questo autentico drago sputafuoco che sembrava vivo era però tanto più credibile perché era immerso in uno scenario naturale, interagiva con persone in carne ed ossa, ed era ripreso da una telecamera con i piedi ben piantati per terra (al contrario dei campi lunghi “volati” di cui ora si fa uso e abuso). E, soprattutto, ciò che, agli occhi dei bambini di allora, ha reso indimenticabile il drago, è la frase “A noi draghi piace cantare quando siamo felici” pronunciata dalla voce calda di Gigi Proietti.
Uno spettatore un po’ più cresciuto, comunque, a qualche annetto di distanza, non può fare a meno di notare che il film non è ridotto al solo bestione computerizzato. Anzitutto salta agli occhi l’ambientazione nell’Inghilterra medievale, o meglio in un nebuloso X secolo, in quella che gli inglesi chiamano Dark Ages, l’ “Età Oscura” dell’Alto Medioevo, con il suo corredo di duelli, battaglie a suon di spade, lance ed asce. Non è però un Medioevo storico, e nemmeno da romanzo cavalleresco o da saga anglosassone o germanica che dir si voglia: basta dare una rapida occhiata per capire che c’è ben altro. A cominciare dallo stesso drago: questo non è il drago dell’immaginario medievale, il mostro che l’eroe deve uccidere per superare la prova. Qui il drago diviene grande amico del protagonista Bowen, suo mentore e consigliere, nella battaglia contro un essere umano, il malvagio re Einon; un drago che si fa educatore di un cavaliere ridotto a volgare mercenario “ammazzadraghi”, e lo ricondurrà al rispetto dei valori del giuramento dei Cavalieri della Tavola Rotonda. E’ facile riconoscere il drago della concezione taoista cinese, figura positiva, incarnazione dell’ “anima Yang“, l’Eterno Maschile, la forza attiva e la saggezza.
Segno dei tempi, questo: siamo in pieni anni ’90, momento di massima diffusione, in Europa come in America, della corrente del New Age. La ricerca, in breve, di una nuova spiritualità  che sia individuale (non mediata da un tramite qualunque), e soprattutto eclettica: filosofie orientali e religioni occidentali di diversa natura vengono fuse insieme e grande importanza viene assegnata all’astrologia, alle medicine alternative, all’esoterismo e alla magia.
A pensarci bene, Dragonheart, ha tutti gli ingredienti della filosofia New Age: un drago visto secondo la concezione orientale, e il conseguente ribaltamento dei ruoli cavaliere-drago dalla morale “ecologista”, tanto più evidente in quanto il nostro drago è l’ultimo della sua razza; un non meglio precisato Medioevo, in cui coesistono elementi della mitologia celtica, germanica, e, soprattutto, Re Artù, Avalon e i Cavalieri della Tavola Rotonda; una magia “simbiotica”, riassunta nel gesto centrale della storia, quello del drago di donare metà del suo cuore al giovanissimo principe Einon gravemente ferito, fatto che costringerà il drago a sacrificare la propria vita perché questi, divenuto il re malvagio, venga sconfitto; la donna che non è la Dama motore della vicenda ed educatrice del cavaliere dei romanzi medievali, ma è di volta in volta la regina madre Aislinn, depositaria di arcani segreti, e la contadina Kora, intrepida e sfrontata guerriera; soprattutto, però il ruolo centrale assegnato alle stelle.
Significativo, infatti, è il nome dato in questa scena al drago da Bowen: Draco, nome latino della costellazione del Dragone. Più tardi, si saprà che quella costellazione costituisce una sorta di “paradiso”, in cui i giusti tra i draghi vengono trasformati in stelle. E la lotta di Draco è proprio per riconquistare quel paradiso perduto con il suo gesto di donare il suo cuore ad un essere umano rivelatosi indegno. Soltanto il gesto eroico di sacrificare la propria vita per la morte del nemico farà sì che il suo enorme e mostruoso cadavere si dissolva in una massa luminosa. E, alla domanda disperata dell’amico cavaliere che gli domanda a chi si rivolgeranno senza di lui, il drago-stella risponderà: “Alle stelle“. La costellazione del Dragone è così completa, e una nuova età dell’oro può avere inizio: così come la mitica Età dell’Acquario pronosticata dagli adepti del New Age.
Buono il cast di attori in carne ed ossa, tra cui spiccano Bowen, un Dennis Quaid non ancora nel suo periodo migliore ma in stato di grazia (tanto più che recita col nulla, il drago è aggiunto dopo le riprese), e Julie Christie, entrata nella storia del cinema per esser stata Lara ne Il dottor Zivago del 1968, ma sempre pronta a reinventarsi e a rimettersi in gioco come la regina Aislinn; una menzione anche per Pete Postlethwaite, noto al grande pubblico per aver interpretato quello stesso anno il ruolo di Frate Lorenzo in Romeo + Giulietta con Leonardo di Caprio, in tonaca anche qui, perfettamente a suo agio nella parte di Fratello Gilbert, monaco goffo e pasticcione con doti nascoste da arciere.
Dragonheart sarebbe stato il capostipite del genere, letterario e cinematografico, dei “Fantasy New Age”: il film sarebbe stato seguito da due sequel per il piccolo schermo e da un romanzo ricavato dalla sceneggiatura. E basta guardarci intorno sugli scaffali delle librerie e dei negozi di videogiochi per trovare draghi che spuntano da ogni dove.



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