“Do it yourself“, un monito che dagli anni ’90 è diventato una sorta di dogma, un dettame che ha proverbialmente trasformato la necessità in virtù, divenendo un punto d’onore da sfoggiare come una medaglia che testimonia la tenacia di chi insegue il sogno artistico e non monetario.
Questa non è certo una crociata contro le band che si autoproducono, anzi, ben venga il coraggio di lavorare sodo e tanto di cappello a chi non si lascia abbattere dalle difficoltà che il cercare di emergere si porta appresso, ma quella dell’indie è una questione che mi ha sempre dato da pensare e della quale ho sempre temuto le conseguenze; per quale ragione una band si definisce “indie-rock”? Perché non semplicemente “Rock”? Cosa aggiunge la parola indie alla definizione di un genere musicale? L’impressione è che la sola parola indie sia diventata in molti casi una sorta di scudo, una maschera snob e spesso intellettualoide da mostrare per non rischiare troppo, perché se fai rock e lo fai male, pigli le critiche e le porti a casa, se invece fai “indie-rock” chi ti critica lo fa perché non capisce ed è troppo legato al “mainstream”, che è un po’ come quando la tua ragazza in piscina fa dei confronti tra il tuo fisico e quello del bagnino e tu – con la pancetta bene in vista – rispondi “Si, ma di sicuro è gay“….
Un titolo divertente per un album altrettanto divertente, casinista, punk nel midollo, eppure capace di mantenere una spiccata originalità: l’album infatti non finisce nella prevedibilità dei cliché tipici delle punk band, non scimmiotta ne i Ramones, ne i Sex Pistols, ne tantomeno il punk più moderno di Offspring o Green Day, certo, qualche richiamo c’è, è innegabile, e lungo le 13 tracce che compongono l’album si possono chiaramente leggere le influenze di questi gruppi, oltre a quelle più marcate di Pennywise, NOFX, Rancid e Exploited, ma sono influenze che riescono a rimanere tali e che aggiungono qui e là elementi sonori riconoscibili che si amalgamano in maniera splendida con ispirazioni differenti e dal sapore vintage.
In “Drink it yourself” infatti i ritmi punk si mescolano con vibrazioni più rock, qualche traccia – seppur lieve – di blues, lo ska con i suoi ottoni squillanti, lo psychobilly ed il rockabilly nei brani più ballabili ed un hardcore punk di gran classe nei pezzi più secchi e chiassosi, e poi ancora piccoli richiami sapientemente dosati lungo i circa 40 minuti di durata dell’album. Il risultato è un disco fluido, senza cedimenti o bruschi cambi di rotta, tanto scanzonato quanto ribelle, serio e critico, ma anche un po’ cazzone, che si apre con la dichiarazione di intenti su tempo swing di “I do it for myself”, e prosegue alternando brani dai contenuti caustici come “Nothing changes (in Italy)” o “It doesn’t matter” con pezzi che divertono con leggerezza come “Denise was a liar” ed altri tanto espressivi nella loro natura vintage da trasportare l’ascoltatore in fascinosi scenari della prima metà del secolo scorso, e ne sono un esempio “You rascal you” e la splendida “Rocking Rag”, divertissement a metà tra punk e charleston che viene posto a degna chiusura di un album dal sapore allo stesso tempo morbido e pungente, eterogeneo in tutto e per tutto, ma amalgamato con sapienza e suonato in maniera impeccabile.
Written by Emanuele Bertola
Tracklist:
01. I do it for myself
02. D.I.Y.
03. Denise was a liar
04. It doesn’t matter
05. Distorted reality
06. Brand new day
07. Double malt happiness
08. What’s the matter with us?
09. You rascal you (Fletcher Henderson cover)
10. No fun in my hometown
11. Nothing changes (in Italy)
12. My own way
13. Rocking rag