Dripping Pasolini

Creato il 30 ottobre 2015 da Gadilu

Quaranta gocce per il 40° anniversario della morte

“Killed to keep the world turning” (Coil, Ostia – The death of Pasolini)

1 (La prima volta). La prima volta che ho visto Uccellacci e Uccellini, un pomeriggio alla televisione, ho intuito che si trattava di qualcosa d’importante per la mia vita. Qualcosa di decisivo, cioè responsabile di un taglio tra ciò che essa era stata e ciò che sarebbe diventata da quel momento in avanti. Quel film era straniante e l’effetto, in primo luogo, era causato da Totò, che ovviamente conoscevo già come attore “da ridere”. Lì però non faceva ridere. O meglio, faceva anche ridere, ma c’era qualcosa in più. Qualcosa che allora mi sfuggiva. E io sentivo chiaramente che sarebbe stato molto importante rendermi conto di cosa si trattasse.

2 (Via Crimea). Ultimamente mi capita spesso di cambiare il nome alle vie. È il mio modo di memorizzarle. Così, una notte, dopo aver cenato al Pigneto, siamo passati da via Formia, da me ribattezzata via Crimea, perché volevo vedere uno dei luoghi in cui è stato girato Accattone, e tu mi hai detto che era a pochi passi da casa tua, e che però non si chiamava via Crimea, ma via Formia. Il posto era poco illuminato, così i ricordi del film potevano sovrapporsi con maggiore libertà al paesaggio attuale, fino a restituirci qualcosa di quella desolazione poetica da me cercata. Abbiamo aspettato un po’ che Accattone e Stella spuntassero, in fondo alla via. Ma non sono arrivati. Poi siamo rientrati in macchina e tu mi hai fatto vedere la nuova fermata della terza linea della metropolitana, come un’oasi di luce nel buio di Sinferopoli.

3 (Una vita violenta). Adesso la scena è più remota e confusa. Sono a casa mia, a Livorno. Forse ho quindici anni. Provo a leggere Una vita violenta (un tascabile Garzanti che ho ancora). Ma faccio fatica: il romanesco mi respinge. Non trovo nessun appiglio tra ciò che leggo e la realtà che ho intorno (la mia periferia non assomiglia, per fortuna, a quella descritta nel libro). Lo lascio a metà.

4 (Radici friulane). Pasolini scrive le prime poesie nel dialetto di Casarsa: “Un idioma straniante pure per buona parte dei friulani”, mi racconta Stefano Barbacetto. “Eccentrico, arcaico, con sfumature di veneto. Nell’apprenderne le finezze fu guidato da Riccardo Castellani, un poeta raffinato e timido, più vecchio di lui. A modo suo bilingue (in carnico e in casarsese). La loro amicizia s’interruppe, ma Pasolini previde che il canzoniere friulano di Castellani sarebbe stato straordinario.

5 (Il suo dolcissimo tricolore). Non erano tutte belle le belle bandiere degli anni Quaranta. Non erano tutte belle perché, alla fine, ogni bandiera non può convivere con le altre. Ed è così che sul rosso si allarga una macchia di sangue ben visibile. Guidalberto Pasolini, nome di battaglia “Ermes”, fratello più giovane e amatissimo, scorda il suo nome, non torna indietro, anche se avrebbe potuto. Il resto si legge in uno scarno referto: “Il 7 febbraio 1945 viene catturato alle Malghe Topli Uork (poi dette di Porzûs) da alcuni partigiani garibaldini. Dopo l’esecuzione del suo comandante Francesco De Gregori (e di altre 3 persone), è condotto con i suoi compagni al Bosco Romagno, nel comune di Cividale del Friuli. Sottoposto a ripetuti interrogatori, nei giorni successivi (tra l’8 e il 20 febbraio 1945) verrà sommariamente processato e fucilato dagli stessi che lo hanno fatto prigioniero”.

6 (Le borgate, la periferia). Per uno scrittore come Pasolini, che collocò il proprio punto di vista sul mondo nelle bassure dove vivono i miserabili, i reietti, i “sottoproletari”, è chiaro che la poesia doveva essere ricercata e doveva materializzarsi ai margini della città. Anche la famosa “mutazione antropologica degli italiani”, vista da qui, può essere letta nella forma di una corruzione ad un tempo spaziale e sociale: “Un po’ alla volta la città si è avvicinata a queste borgate che prima della guerra erano perdute nella campagna, le ha inghiottite, le sta inghiottendo” (I campi di concentramento, in Storie della città di Dio).

7 (Il sacro). Sulla peculiare religiosità di Pasolini è stato detto e scritto molto. La sua concezione della trascendenza – che lui traeva dalla realtà mediante le tecniche di riproduzione poetica delle quali si serviva (in particolare il cinema) – è di tipo “immanente”. Un’immanenza che dunque non spiana mai il reale a fronte delle sue ipotetiche sporgenze “sacre”, ma che al contrario attinge alla sacralità proprio mentre approfondisce la realtà in apparenza più riottosa a farsi formalmente annunciatrice del “sacro”.

8 (il basso coincide con l’alto). Se c’è un detto evangelico che si addice a Pasolini, questo è sicuramente “gli ultimi saranno i primi” (Matteo 20,1-16). Allo stesso modo, scegliendo i suoi attori, abbiamo personaggi presi dalla strada e figure staccate dall’empireo del cinema o di altre arti (Anna Magnani, Totò, Maria Callas).

9 (Roma). Roma, mamma Roma, l’eternità di Roma. Cos’è Roma per Pasolini? Basterebbero poche immagini, per esempio quelle scattate al poeta da Henri-Cartier-Bresson al Mandrione, tra i regazzini, le baracche e laggiù il fronte della città che avanza. Ma, per l’appunto, anche solo il volto di Anna Magnani che conclude il suo straziante monologo sulle generazioni di pezzenti a stringere la catena dei destini umani, fino all’esalazione dell’ultima domanda: “Allora de chi è la colpa qua, de chi è la responsabilità?”. Ecco l’eternità di Roma.

10 (Longhi). Pasolini fu allievo all’Università di Bologna del grande critico d’arte Roberto Longhi. Longhi è stato uno dei massimi interpreti del Caravaggio. Tra Caravaggio e Pasolini, potrebbe dire Longhi, vi è la stessa “certezza di visione in unità di luce circolante”. Unità di luce vissuta come abbattimento della gerarchia tra i generi. E una cospicua porzione di “ombra portata”, vale a dire il loro tragico destino.

11 (Bach e la Grande Bellezza). Bach serve a Pasolini per trasfigurare l’epos degli umili, immergendolo nella dimensione sfolgorante del sacro. È un altro modo con il quale egli fa cortocircuitare il basso con l’alto, il Sacro Gra e la Grande Bellezza concepiti all’unisono.

12 (Madre). Le fotografie che ritraggono Pasolini assieme alla madre mi hanno sempre fatto pensare al rapporto filiale intessuto da Roland Barthes con la propria. Anche in quel caso si trattava di un lutto inestinguibile (si legga il libro Dove lei non è, o le famose pagine de La camera chiara). Ma per Pasolini il lutto è anticipato e rivolto verso se stesso, come se, per la sola ragione di aver ricevuto da lei la vita, questa vita fosse divenuta di fatto impossibile: “Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data”. Alcuni testimoni hanno raccontato che, mentre lo stavano massacrando, il poeta gridava “Aiutami, mamma”.

13 (Omosessualità). Una delle domande poste nei Comizi d’amore è: “A che punto comincia l’anormalità e finisce la normalità nei rapporti sessuali?”. Pasolini strappa il sesso dai confessionali e lo rende protagonista di un’inchiesta en plein air. La sua stessa autocondanna (o meglio: ciò che gli verrà sempre rinfacciato come “colpa”) andrà così tatuandosi sul rovescio della condanna rivolta all’ipocrisia borghese. Non a caso Giulio Andreotti, che come incarnazione dell’uomo medio di quei condizionamenti era l’interprete e il guardiano, commentando le circostanze della sua morte dirà che “se l’è cercata”.

14 (Fotografie). Esistono moltissime fotografie di Pasolini, anche per la sua lunga frequentazione dei set cinematografici (pullulanti di fotografi). Si potrebbe credere che non disdegnasse cercare o donare la propria immagine riflessa. Ma il dono alla fine supera la ricerca, ed è per questo che la maggior parte delle immagini che lo ritraggono risultano così intense (per esempio le fotografie di Pino Prediali).

15 (Maestri). Agli inizi degli anni Novanta frequentai un corso mensile di tedesco a Überlingen, sul lago di Costanza. Abitavo insieme a un amico in una casa su una collina adiacente la città e per raggiungere la scuola, posta in riva al lago, dovevamo attraversare un piccolo parco. C’erano corvi ovunque e ci dicevamo: “Ecco, guarda quanti maestri”.

16 (Ragazzi di vita). Copio la definizione da una scheda scritta per gli studenti: “Il titolo indica che i protagonisti sono dei giovani che vivono di espedienti e piccoli furti per sopravvivere. La miseria e le dure condizioni di vita li hanno costretti a crescere prima del tempo, ma non gli hanno fatto perdere il loro vitalismo”. Si potrebbe anche dire che si tratta di ragazzi nati in un contesto abbruttente, ma che non si danno per vinti, che non rinunciano a cercare di scardinare i meccanismi della loro emarginazione, non potendo comunque mai sfuggire allo stigma sociale che conferma il loro abbruttimento.

17 (Al Biondo Tevere). Una sera cenai per caso al Biondo Tevere, il ristorante sull’Ostiense in cui Pasolini e Pino Pelosi trascorsero la sera del primo novembre 1975, la sera fatale. Nella sala al piano inferiore, sul lato destro rispetto all’entrata, alcune fotografie segnalano il tavolo al quale i due mangiarono (in realtà mangiò solo Pelosi). Immagino che non sia facile pranzare o cenare lì. Il locale non mi dette l’impressione di essere uno di quelli che registrano spesso il “siamo al completo”. Ma posso anche pensare che, in certe situazioni di necessità, a qualcuno quel tavolo possa venire offerto. E dunque sarà anche possibile mangiarci senza pensare troppo a quello che è accaduto. Magari perché non sono in molti a ricordarlo, o a ritenerlo significativo (il che è decisamente più probabile).

18 (Capelli al vento). Grazie a YouTube oggi praticamente è possibile recuperare quasi ogni tipo di contributo filmato che è stato prodotto con e su Pasolini. Uno di questi ce lo mostra mentre parla a Sabaudia dell’omologazione creata dal potere contemporaneo, secondo lui più invasivo e distruttore dei costumi o del modo di vivere degli italiani di quanto lo sia mai stato il fascismo. È la famosa tesi del “mutamento antropologico”, della decomposizione della società sotto i colpi (morbidi, subdoli e quindi più letali) del livellamento culturale che rende il “popolo” “massa”. Una tesi che può essere anche “sfocata” nelle due direzioni verso le quali è protesa: dannazione del presente e idealizzazione del passato. Ma con la quale occorre confrontarsi. Intanto lì, a Sabaudia, il poeta dice quelle cose con i capelli al vento, sullo sfondo un mare in tempesta.

19 (Intellettuale organico). Scrive Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere: “Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, «persuasore permanentemente» perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane «specialista» e non si diventa «dirigente» (specialista + politico)” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, pp. 1550-1551). Significativo che Pasolini abbia compiuto il passaggio che l’ha reso un intellettuale organico staccandosi dall’organismo del Partito Comunista Italiano, quest’ultimo incapace di tollerare la sua omosessualità manifesta (nella motivazione dell’espulsione si parla di “indegnità morale”) e dunque la completezza della sua personalità.

20 (Il fiore rosso). Il fiore rosso, che compare in mano a un Ninetto Davoli felice e spensierato nel traffico di Roma, è il simbolo dell’innocenza, non della rivoluzione. In Pasolini la fine dell’innocenza è un tema chiave. E si congiunge a quello della fine della rivoluzione (o della speranza rivoluzionaria). La morte dell’innocente, giacché nel mondo contemporaneo l’innocenza non può più esistere, anticipa così quella del poeta (un tempo) rivoluzionario.

21 (Lampi sull’Eni). Il titolo di questo capitolo misterioso (misterioso perché mancante, forse mai scritto, forse trafugato) di Petrolio mi ha sempre affascinato. È un lampo che illumina una scena oscura, e che poi, subito dopo essere stata illuminata, cioè appena intravista, sprofonda definitivamente nell’oscurità. Il titolo del capitolo mancante di Petrolio funziona allo stesso modo del celebre “Io so”: ne è per così dire una variazione e una sintesi poetica.

22 (Un figlio solo). Provocatorio e profetico. La coppia di aggettivi è quella che viene associata più spesso a Pasolini. Si trova anche nelle note di presentazione di Teorema, il libro che scrisse durante la realizzazione dell’omonimo film. Si tratta, a mio avviso, del suo capolavoro più alto, quasi un tentativo di vedere tutto ciò che si è uscendo fuori da sé. E la visione ci parla dell’indifferenziato e del processo – la duplice perdita del Paradiso – che portò poi alla nascita di ogni differenza (a cominciare da quella tra maschile e femminile) e della violenza e del male: “Stretti per mano ai genitori prendemmo le strade del mondo. Lucifero si distinse da Abele, e seguì il suo destino finendo nell’oscurità più nera. Abele morì, ucciso da se stesso col nome di Caino. Insomma non restò che un figlio, un figlio solo”.

23 (Scuola di ballo al sole). La scena di Uccellacci e uccellini con i ragazzi che ballano fuori dal bar, lo scambio tra Totò e Ninetto, il cameriere che si aggiunge agli altri, l’arrivo della corriera e la checca che li chiama.

24 (Addio al calcio). L’immagine è famosa. Pasolini gioca a calcio con dei bambini in un campo – più propriamente una spianata – di periferia. È vestito in giacca e cravatta, è concentrato e felice. Ho letto che anche il due novembre 1975, mentre giaceva a terra esanime, a malapena coperto da un lenzuolo, e si erano già radunate diverse persone a intralciare gli agenti di polizia intenti nei loro (chiaramente impossibili) rilievi, un gruppo di ragazzetti si era messo a rincorrere un pallone proprio a due passi dal cadavere.

25 (Il poeta e la diva). Non ho mai visto la Medea, ma molte foto di Pasolini e la Callas sul set. Innamorati l’uno dell’altra.

26 (Una forza del passato). Stavolta il regista è Orson Welles (doppiato da Giorgio Bassani). Concede una breve intervista a un giornalista. Alla fine praticamente lo annienta, definendolo “un uomo medio”, cioè “un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista”. Il giornalista ride. Poco prima aveva ascoltato, non capendoli, i versi che custodiscono il centro dell’ispirazione del poeta: “Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore.Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più”.

27 (Pittore). Pasolini sapeva disegnare e dipingere. Famosi gli autoritratti, utilizzati dagli editori per la copertina di alcuni suoi libri (ricordo Le lettere luterane). I suoi film, inoltre, abbondano di citazioni tratte dalla storia dell’arte (Pontormo, Giotto, Mantegna). Alla fine del Decameron, travestito da maestro d’affreschi trecentesco, afferma: “Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto”.

28 (Una storia sbagliata). “Storia diversa per gente normale, storia comune per gente speciale”. Fabrizio De Andrè ha dedicato a Pasolini una canzone (Una storia sbagliata) offrendone anche un’interpretazione: “…la morte di Pasolini ci aveva resi quasi come orfani. Ne avevamo vissuto la scomparsa come un grave lutto, quasi come se ci fosse mancato un parente stretto”. La storia della sua morte è sbagliata perché, banalmente, non sarebbe dovuta accadere. Poi aggiunge che la storia sbagliata è sbagliata anche perché è scaduta a merce banale, da “negozio di parrucchieri”. Il pettegolezzo fetido in margine a una vicenda che ha al suo centro (come sembrava anche a De Andrè, quando scrisse il suo pezzo) solo una relazione omosessuale, tipica di un paese incivile: “Purtroppo la cultura maschilista e intollerante di un passato ancora troppo recente, ed allora ancora più recente di quanto non lo sia adesso, e che definirei un passato ancora recidivo, ha fatto credere alla maggioranza che il termine normalità debba coincidere necessariamente con il termine intolleranza. Ecco, un altro aspetto tragico che abbiamo voluto sottolineare nella canzone per la morte di Pasolini è quello legato ad una moda purtroppo ancora adesso corrente, e che si ricollega anche lei al clima di ignoranza e di caccia al diverso”.

29 (Un ladro). Bernardo Bertolucci racconta che la prima volta che vide Pasolini lo scambiò per un ladro. Il poeta aveva bussato alla porta dei Bertolucci perché cercava il padre di Bernardo. Chiarito l’equivoco, Bertolucci (allora giovanissimo) raccontò a Pasolini quello che aveva pensato. La cosa fece molto piacere a Pasolini: “Per uno che racconta storie di ladri, non c’è niente di più bello che essere scambiato per un ladro”.

30 (32 57 C). La sigla, impressa con un pennarello su un cartone in pessimo stato, indica il codice d’archivio del Museo criminologico di Roma, in cui sono custoditi i reperti dell’omicidio Pasolini. Aprendola, ci si trova un bastone, un’assicella spezzata, la camicia impregnata di sangue, alcuni documenti, libri (uno di Marx). I suoi occhiali con l’inconfondibile montatura nera (ci si chiede com’è possibile che non si siano rotti). C’è anche il famoso maglione verde e il plantare di scarpa che non appartenevano né a Pasolini né a Pelosi.

31 (Epitaffio). Il poeta romano Elio Filippo Accrocca (1923-1996) ci ha lasciato un anagramma che è un epitaffio: “Pier Paolo Pasolini – Parlò ai Pino Pelosi”.

32 (Vagalumes). Nel memorabile attacco al suo L’affaire Moro, Leonardo Sciascia si rivolge a Pasolini – “fraterno e lontano” – come per rincuorarlo: “Le lucciole che credevi scomparse, cominciano a tornare. Ed è stato così anche con i grilli: per quattro o cinque anni non li ho sentiti, ora le notti sono sterminatamente gremite del loro frinire”. La scomparsa delle lucciole, mediante la quale il poeta data il passaggio tra una prima e una seconda fase del regime democristiano (“La prima fase di tale regime – come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali – è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi”), è una delle due immagini più forti con le quali egli ha influenzato il linguaggio politico. L’altra, come noto, è quella del “Palazzo”. In effetti, le lucciole non erano scomparse. Nell’estate del 1995 mi trovavo a Bologna, per svolgere il servizio civile. Abitavo fuori città, in una villa sui colli. Il Comune felsineo l’aveva adibita ad ostello. Perlopiù noi obiettori di coscienza eravamo da soli, ma di tanto in tanto venivano anche altri ospiti. Una settimana siamo stati piacevolmente invasi da un gruppo di bambini brasiliani (non ricordo il motivo del loro arrivo). Ovviamente abbiamo giocato a calcio con loro, nel grande prato antistante la villa. Una sera (mentre giocavamo) i bambini avvistarono dei puntini luminosi che danzavano sull’erba e si misero tutti a gridare di gioia: “Vagalumes! Vagalumes!”. “Darei l’intera Montedison per una lucciola”, scriveva Pasolini nel 1975. Il filosofo Georges Didi-Huberman (Come le lucciole, Bollati Boringhieri 2010) spiega bene il senso politico di questa predilezione. Si tratta della contrapposizione tra i “feroci riflettori del potere” e il lucore intermittente della resistenza o di qualsiasi altra attività che, seppur balbuziente ed oppressa, tenta di mettere in questione il fascismo di ieri e di oggi.

33 (Omogeneizzazione). A parte la famosa indigestione di ricotta nel cortometraggio omonimo, la coprofagia illustrata in Salò, o i nidi di rondine bolliti di Uccellacci e uccellini, tutti esempi di gastronomia problematica, non mi risulta che Pasolini abbia dedicato particolare attenzione al tema del cibo quale privilegiata sonda etnografica. Strano, perché niente – più di un’analitica della tavola – si sarebbe prestato meglio a fotografare la fine dell’originalità individuale, dei caratteri regionali, del sapore locale. Alberto Arbasino (Ritratti italiani, Adelphi 2014) ha suggerito per questo di leggere l’omologazione come una più elementare forma di omogeneizzazione: “… perché forse dall’alimentazione con gli omogeneizzati infantili nasce la standardizzazione uniforme degli atteggiamenti e degli abbigliamenti e del lessico”.

34 (La solitudine). “Bisogna essere molto forti per amare la solitudine”. È l’attacco di un celebre frammento che porta il titolo Versi del testamento, ed è incastonato nella raccolta Trasumanar e organizzar del 1971. Pasolini è stato inchiodato alla solitudine, come lui stesso aveva compreso benissimo, trovando le parole più affilate per dirlo, dal moralismo e dal qualunquismo della società italiana, ovvero dalla loro “abietta alleanza”. Per sfuggire a una tale, sterminata, solitudine, non gli restava che farla deflagrare creativamente in opere sempre più dure, oppure, e sono rari momenti, defilarsi preparandosi a morire: “Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, che valga una camminata senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”.

35 (8 settembre a Livorno). Una domanda che potrebbe essere considerata oziosa, ma non lo è per me, soprattutto alla luce della risposta. Dove si trovava Pasolini l’8 settembre del 1943, cioè – per usare la formula di Salvatore Satta – il giorno in cui moriva la patria? Si trovava a Livorno, la mia città, prigioniero dei tedeschi. Approfittando della confusione seguita a un attacco aereo, riuscì poi a fuggire e a tornare in Friuli. Su Pasolini e Livorno ho recuperato un appunto che ricopiai qualche anno fa, traendolo da una rivista del 1959 intitolata Successo: “Livorno è la città d’Italia dove, dopo Roma e Ferrara, mi piacerebbe più vivere. Lascio ogni volta il cuore sul suo enorme lungomare, pieno di ragazzi e marinai, liberi e felici. Si ha poco l’impressione di essere in Italia. Intorno, nelle fabbriche dei quartieri verso il Nord, ferve un lavoro che non ha un’aria familiare, e per questo è tanto più amica, rassicurante. Livorno è una città di gente dura, poco sentimentale: di acutezza ebraica, di buone maniere toscane, di spensieratezza americanizzante. I ragazzi e le giovinette stanno sempre insieme. Il problema del sesso non c’è, ma solo una gran voglia di fare l’amore. Le facce, intorno, sono modeste e allegre, birbanti e oneste. Pei grandi lungomari disordinati, grandiosi, c’è sempre un’aria di festa, come nel meridione: ma è una festa piena di rispetto per la festa degli altri”. C’è ovviamente molto del Pasolini idealizzante, in questa descrizione.

36 (Il posto adatto). L’inizio del famoso “Appunto 55” di Petrolio – lungo frammento che descrive un’orgia o un lungo rituale di sottomissione consenziente – comincia con una descrizione che potrebbe essere la sceneggiatura di un delitto. Un delitto premeditato sia da chi l’ha eseguito che da chi l’ha subito: “Carlo, presi questi accordi, fece qualche passo avanti sul prato, senza guardare alle sue spalle chi aveva deciso di venire per primo. Si guardava attorno per scegliere il posto adatto”. Siamo a un passo dalla cava presso la quale fu pugnalato – “come un cane” – Josef K. Prima che il sangue cominci a fluire, ecco dunque la ricerca del posto adatto: “Ma qui c’erano troppe buche e piccoli ‘montarozzi scoscesi’, lì troppe pietre (mescolati a cocci e immondizia), più avanti c’era effettivamente un bello spiazzetto, di erba secca, piatto, ma era troppo alto ed esposto quindi alla vista di quelli che aspettavano; più avanti ancora c’era una buca, ma troppo profonda però, e per di più piena di cardi e ortiche. Solo oltre quella buca, c’era un piccolo spiazzo che poteva andar bene, a quanto pareva”.

37 (Ombre sul giallo). Pino Pelosi ci mette trent’anni a cambiare versione e lo fa durante una trasmissione televisiva intitolata Ombre sul giallo. In pratica dice che l’omicida non è lui e che quella notte, ad Ostia, c’era altra gente. Pelosi ricorda il nome solo di chi è già morto (“i fratelli Borsellino”, due fascisti). Degli altri dice di non sapere né chi fossero né perché agirono a quel modo.

38 (Sorrisi sul luogo del delitto). Sul luogo del delitto è stata scattata una fotografia raccapricciante (o comunque più raccapricciante delle altre). Ma il punctum stavolta non è rappresentato dal corpo straziato del poeta. Come nella celebre immagine dell’esecuzione di Cesare Battisti – con le zampe del boia giulivo appoggiate alla forca –, c’è qui un poliziotto chino sul cadavere che sorride di scherno. Non si tratta di un poliziotto con il quale il poeta “avrebbe simpatizzato”: è molto difficile continuare ad alimentare l’equivoco di Valle Giulia e fingere che non sia stato Pasolini, già allora, a scrivere: “Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della Polizia”. Secondo Wu Ming 1, davanti a questa immagine riudiamo piuttosto la frase pronunciata a Regina Coeli da un agente di custodia a proposito del giovane Marcello Elisei, la cui tragica figura verrà citata da Pasolini alla fine di Mamma Roma: “Quel bastardo è morto”.

39 (Ecce Homo). Ernest Pignon-Ernest, straordinario artista di strada francese, ci regala l’ultima goccia di dolore e di splendore. Il poeta è in piedi, ha lo sguardo fiero, e tiene tra le braccia se stesso. Sembra un Cristo appena deposto dalla croce e tuttavia già risorto. (Sulla scena cala l’Erbarme dich, mein Gott della Matthäus-Passion di Bach: Abbi pietà, mio Dio, per l’amore delle mie lacrime / Guarda qui, il cuore e l’occhio che piange davanti a te amaramente / Abbi pietà, mio Dio).

40 (Fine a Casarsa della Delizia). Nel cimitero di Casarsa, davanti alla tomba di Pier Paolo Pasolini e della madre Susanna Colussi, adesso c’è un uomo vestito con un soprabito chiaro. Potrebbe essere una giornata di inizio novembre. La sua testa è leggermente abbassata, pare immerso in una profonda meditazione. Quando la rialza vediamo però che si tratta di un ragazzo. Le palpebre, ancora socchiuse, nascondono gli occhi malandrini di un riccetto. “Per quali strade il cuore / si trova pieno, perfetto anche in questa / mescolanza di beatitudine e dolore?”.