Due barlafusi sull’ himalaya

Creato il 19 novembre 2010 da Lalelakatia

Si, lo so, ci siamo fatti sentire poco ultimamente, la Katia ci aveva lasciato agli usi e costumi indiani e mancherebbe da raccontare tutto il percorso fatto nel nord dell’ India insieme a Janis e Laura, ma oramai non c’è più tempo, e poi tanto ci sono le foto e poi comunque siamo usciti dall’ India.
Si, oramai da quasi un mese siamo in Nepal, ultima (sigh) tappa del nostro viaggio; sinceramente avevamo altri piani, ma problemi diplomatici ci hanno dirottato qua e, già che ci siamo, non possiamo farci mancare l’ attrattiva principale del paese: la catena dell’ Himalaya e, dopo essere sopravvissuti alle Ande e alla Patagonia, questa volta rischiamo davvero di farci male, tanto più che le uniche misere cose da montagna che avevamo le abbiamo spedite a casa dalla Thailandia 6 mesi fa.
Quindi, dopo il solito viaggio assurdo, questa volta addirittura psicotico grazie ai bus nepalesi i quali battono tutti in fatto di posti stretti e musica ipnotica, arriviamo nella mitica Kathmandu una sera di fine ottobre, con le infradito ai piedi.
La città ha due facce: da un lato il fascino antico della Kathmandu vecchia piena di palazzi, pagode, stupa e un atmosfera in bilico fra gli anni 60 e il medioevo; dall’ altra il ghetto per turisti di Thamel dove si trova ogni servizio turistico e ci sono più insegne colorate che turisti: in un incrocio di 3 vie si trovano centinaia fra agenzie, alberghi, ristoranti, bar, internet point e negozi di articoli per trekking.
Le merci più presenti per le strade di Kathmandu sono: balsamo di tigre, prodotti in gore-tex e gli immancabili spacciatori del famoso hashish nepalese.
Noi dovremmo starci giusto il tempo di organizzare la nostra spedizione, ma alla fine ci rimarremo una settimana abbondante visto che non riusciamo a districarci fra giacche in gore-tex, scarpe da trekking e sacchi a pelo da polo nord; la sosta è resa comunque piacevole dalla compagnia italo-ispanico-argentina che incontriamo e dai mitici momo, il nostro nuovo piatto preferito, dei ravioloni di origine tibetana ripieni a scelta ripieni di verdura, carne o formaggio.. rigorosamente di yak.

il grande fratello ti osserva...

i momo

Ma torniamo alla ragione che ci ha portati qui: la montagna.
Come tutte le nostre precedenti destinazioni non abbiamo la più pallida idea di quello che stiamo per fare e quindi studiamo la guida e chiediamo consigli a tutti. Alla fine la nostra scelta ricade sull’ area dell’ Annapurna una delle 10 più alte montagne al mondo e uno dei paradisi mondiali del trekking.
Quindi dopo il festeggiamento del secondo compleanno della zia Katia all’ estero, leviamo le tende da Kathmandu e ci spostiamo a Pokhara, ridente cittadina turistica sulle sponde di un lago e alle pendici dell’ Annapurna range.
Abbiamo tutto ormai, solo un paio di giorni di relax (ancora??), si fanno scorte di cioccolato e frutta secca e soprattutto affittiamo il più grosso sacco a pelo che riusciamo a trovare ancora memori della quasi morte per assideramento al El Cocuy in Colombia.
Raggiungiamo di mattina presto come dei veri montanari (a mezzogiorno) il luogo di partenza del trekking con una sequenza di bus uno più sgarruppato dell’ altro, e con la morte nel cuore per quello che ci aspetta partiamo a camminare.
Quello che ci aspetta sono 2 settimane intere di trekking con zainoni pieni di tutto l’ occorrente sulle spalle, un numero incalcolabile di km a piedi e circa 6000 metri di dislivello di su e giù fra le valli per raggiungere la nostra meta: l’ Annapurna sanctuary, ovvero il campo base dell’ Annapurna a 4130 metri, da dove si apre un anfiteatro naturale di montagne fra i 7000 e gli 8000 metri davanti ai tuoi occhi.
Wow, sembra interessante, ma vi assicuro che quando sai che devi camminare 10 giorni per arrivarci e stai camminando solo da un’ ora, i pensieri che ti vengono in mente nell’ ordine sono:
-chi minchia me l’ ha fatto fare?
-non potevo andare al mare?
-mi fanno male le spalle
-ho fame
-voglio morire
-è passata solo un ora e quella cazzona si è già mangiata metà delle scorte di frutta secca
e cose del genere
vabbè, superiamo in qualche modo il battesimo e dopo 3 giorni di cammino fra boschi lussureggianti e campagne iniziamo a prendere un buon passo, maciniamo kilometri su kilometri e doppiamo intere vallate passando ogni giorno dislivelli da mille metri giù e mille metri su, che io penso:
ale pensa: “ma chi cazzo ha disegnato il percorso era ubriaco? non c’era una via breve che saliva e basta? e poi fare un ponte no? minchia fanno ponti volanti dappertutto ma mai dove serve .. mah”
La Katia invece, nonostante vergognosi precedenti in cui sembrava che stesse per morire dalla fatica per una passeggiata in bisbino, a questo giro si lamenta pochissimo e mi rende particolarmente orgoglioso di questa ragazza di campagna venuta dalle pianure pavesi, dove un dosso stradale è considerato una montagna, lei che appena arrivata a Como aveva il mal d’ auto solo per fare la salita di Monte Olimpino, lei che è sempre la ultima ad arrancare su ogni pendenza che superi l’ inclinazione di un paio di gradi.
Beh, lei ora e qui che sgambetta fra le bastarde valli dell’ himalaya e si arrampica sulle infinite e maledette scalinate di questi luoghi.
Digressioni a parte, il sentiero è davvero un’ esperienza piuttosto unica; la cosa più bella è l’ attraversamento delle stagioni da un giorno con l’ altro altro: dai 1000 ai 2000 metri è un’ estate piena di montagna, con cieli azzurri a fare da sfondo a quadretti bucolici con torrenti, campi di grano dorati, prati verdi, fiori e farfalle.
Dai 2000 ai 2500 si passa alla primavera, con calde giornate e serate freschine, ciliegi in fiore e orticelli che sbocciano e soprattutto si iniziano a vedere da lontano le bianche vette che viste da qui mica sembrerebbero poi così alte.
Fra i 2500 ai 3500 ci facciamo tutto l’ autunno: dagli inizi dei boschi gialli e rossi, che c’è l’ arietta frizzante e ti sembra di andare a fare castagne, fino al rigido autunno che precede l’ inverno con alberi spogli, brezza pungente e nebbia serale.
E in cima c’è l’ inverno ad aspettarti, con i muschi e i licheni che nemmeno in lapponia, con la neve li vicino che la puoi toccare e un freddo di quelli bastardissimi, che se appena esci fuori dal rifugio la sera per fumarti una sigaretta tutto imbacuccato tremi così tanto che sembra che balli la break dance.

estate

primavera

autunno

inverno

Una decina di giorni ci impieghiamo ad attraversare tutto l’ anno e proprio in questo periodo avviene il miracolo: giorni e giorni di camminata con i maledetti zainoni e dei sacchi a pelo grossi come canotti sulle spalle non ci hanno sfiancato, anzi, man mano che continuiamo ci sentiamo sempre più allenati, tanto che le ultime tappe, quelle che dovrebbero ucciderti, per lo meno per l’ altitudine, ce le mangiamo in scioltezza e una mattina gelida e tersa di novembre appoggiamo il nostro fardello boccheggiando alla nostra nostra meta: Annapurna Base Camp quota 4130.
Anche se ormai siamo di palato difficile e le innumerevoli foto viste e racconti sentiti su questo posto rischierebbero di rovinarci l’ effetto sorpresa, quello che ci si para davanti è uno spettacolo piuttosto unico per i nostri occhi: siamo su una spianata a più di 4000 metri totalmente circondati da colossi alti fino a 4 ulteriori kilometri sopra la nostra testa, ghiacciai, tonnellate di nevi in equilibrio precario sulle pareti (sentiamo anche una valanga) e quella sensazione di libertà che provi solo quando sei nel silenzio dell’ alta montagna.

l' arrivo

Le emozioni e gli aneddoti di questi 13 giorni a zonzo per le montagne non si contano, la fatica e i santi tirati giù nemmeno; a dir la verità ci sarebbe un manoscritto tenuto giornalmente e abbastanza particolareggiato su questo viaggio, ma trascriverlo sarebbe impresa titanica per il sottoscritto e quindi faccio un frullato aneddotico riassuntivo per i posteri:
-gli innumerevoli dahl bath ingurgitati (piatto tipico composto di riso+lenticchie+verdure in quantità industriali)
-le tre befane simpaticissime e più disorganizzate di noi con cui abbiamo fatto parte del tragitto insieme
-le notti in cui ci siamo salvati da camere a 0 gradi grazie ai potentissimi sacchi a pelo della nasa
-la Katia tutta imbacuccata con il suo giaccone bianco che sembra Armstrong sulla luna
-il topo in camera
-la nepalese pazza che ci caccia dal rifugio di notte
-le piante di marjuana che sembrano alberi di natale
-l’ interminabile torneo di macchiavelli iniziato in Laos e che ancora non ha decretato un vincitore
-l’ MGK vis che la Katia sfodera come arma segreta l’ ultimo massacrante giorno
-il cane trekker che vive fra un rifugio e l’ altro
e tante tante altre.
Ora ci siamo messi tutto alle spalle e, da un giardino in fiore di Pokhara, con le ciabatte ai piedi e dopo un paio di giorni di cazzeggio totale e senza vergogna, possiamo finalmente dichiarare compiuta con successo l’ ultima spedizione del nostro viaggio.
Al momento siamo in completo clima pre ritorno, confusi e increduli, acciaccati e sciancati, ma definitivamente felici.

Lale


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