Due Cretini su una Freccia

Creato il 20 dicembre 2013 da Wsf

Se sei cretino, c’è poco da fare. Puoi avere la gentilezza dei terminologi che si sperticano per abbellire il concetto verso la neutralità, al massimo, far dire di te che hai un ritardo, un handicap, un deficit, anche se deficit ha la stessa radice di deficiente e quindi non può andar bene; che sia una disabilità allora, mentale o fisica, un’inabilità anzi, per potenziare il bianco della grana del termine, una diversa abilità, infine, per placare gli animi di tutti.

Ciò che non si cancella, comunque, è la corrente di imbarazzo che si infila tra i vestiti della gente quando un portatore di handicap fende la leggera ipnosi degli individui impegnati a vivere in strada, nei luoghi pubblici.

L’anonimato di un treno è un luogo curioso da cui osservare gli umani. Se venissi da Tau Ceti e dovessi stendere una relazione sul genere terrestre, credo davvero che prenderei una Freccia, trovandomi a Roma, di mattina, per studiare la fitta individualità che separa gli individui, ma anche il torpore collettivo che li agita, secondo linee di demarcazione sottili.

Così, sono rimasto classicamente inserito in uno scompartimento da quattro per un’ora e mezza fino a Firenze; giocando con la mia musica, il mio libro, le prospettive italiane della campagna collinare tra il Lazio e la Toscana, ho osservato ciò che si mostrava di sfuggita intorno.

La mia vicina di destra, che si è divisa tra la lettura nervosa e frammentata di un’antologia di Carver e un paio di conversazioni telefoniche amichevoli e formali, recitate con un tono basso e tiepido di donna che della vita ne sa. Ho capito che mi teneva d’occhio con la pelle, in un modo laterale e sbieco, quando m’ha appena sfiorato in un leggero movimento ed è leggermente trasalita, ha mormorato immediatamente un eccessivo -mi scusi-.

Era appena passato un Controllore di accento veneto e atteggiamento burocratico e secco, costui voleva farmi una multa per aver sbagliato la prenotazione del biglietto fatto di corsa a una macchina elettronica, perchè m’era scappato di aggiungere un’offerta di posto gratis per bambini. Avevo provato a spiegare la mia difficoltà e la fretta, lui tuttociglia aveva ribadito, allora avevo alzato mezzo tono e concluso retoricamente che forse aveva ragione lui, ero io un po’ cretino con le biglietterie.

Poi, per un attimo, l’attenzione di mezzo vagone s’era richiusa su di me, ero uscito dal seminato ipnotico della matrix auto-elettronica in cui ognuno stava inserito, chi I-pod, chi I-pad, chi Galaxy, molti con quel nuovo gesto moderno, ostentato, di spingere e girare l’attrezzo continuamente, orizzontale, verticale e ritorno come abili scimmie digitalizzate, altri ancora col satellitino cellulare infilato nel timpano, che mormoravano a rottadicollo fitti rosari di un cazzuto cristo aziendale.

La mia donna laterale navigata che spizzava Carver s’era innervosita, appunto, il cazzuto aziendalista upper-class che avevo di fronte era tutto uno sforzo di mantenersi ultraterreno, s’immagini sopracciglia strette che insistono per rimanere strette, uno sguardo di goniometro preciso che ruota per due unici fulcri, da I-pad a un punto nell’angolo alto opposto della carrozza, avanti e indietro infinite volte, sorvolando la nullità che rappresento, i vestiti alternativi che mi coprono, le sneaker di un modello già passato, con un paio di macchie in punta, che scopro lì per lì di avere ai piedi.

A Firenze costoro scendono, mentre allungo le gambe fino a occupare la sporca posizione del cristo pariolino aziendalista che mi stava opposto, dal fondo del corridoio avanza una specie di coppia del destino, una madre e una figlia ritardata che vengono a sedermisi di fronte.

La piccola avrà tredici, quattordici anni, vocalizza quei fonemi acuti tipici che la madre scavata in volto cerca di tenere buoni, per la decenza collettiva che abita il treno ipnotico. Guardo questa pallida madre e provo un moto di compassione fortissimo. Poi guardo lei, la piccola Giulia, per un attimo ci fissiamo un po’ stupiti, poi lei scoppia ridere e io pure, la seguo naturalmente e volentieri.

Comincia un altro viaggio, adesso siamo solo lei e io, legati da qualcosa che ci fa ridere fuori dalle righe. Continuo ad avere l’imbarazzo della madre dentro di me, capisco quanto questa donna soffra, per la figlia e per quello che ciò comporta, per lo strappo sociale che si porta dietro con amore e per la dignità che fa a cazzotti con la vergogna. Non posso continuare a far ridere la piccola Giulia, la gioia che prova l’accende letteralmente, così comincia a produrre ai limiti del grido quelle poche parole cardine che sa: m-mma, tree-noo, bootte!

C’è qualcosa che freme nel collettivo del salone viaggiante, ancora una volta mi trovo involontariamente ad esserne centro, faccio ridere Giulia e amerei sciogliermi con lei in quella risata sgangherata, eppure torno al mio ponderoso Libro Rosso, una cosa pesante di carta che mi impegno a sottolineare godendomi solo l’attenzione laterale della piccola. Lo faccio per decenza, e per misericordia, in un certo senso.

Devo scendere a Bologna, i primi murales dei centri sociali cominciano a sfilare lungo i finestrini, mentre penso a qualcosa da pescare nel delirio del mio zainetto che possa fare da regalino per Giulia, lei mi apostrofa direttamente per la prima volta, una mitragliata di suoni di cui comprendo nulla. Traduce la madre: la piccola vuole sapere com’è il Libro Rosso che sto leggendo con tanta concentrazione, in particolare se si tratti di un romanzo o altro, cioè se sia una cosa -leggera- o -pesante-, ecco, l’avevo decisamente sottovalutata. Poi sorride, sorride e insiste, mi guarda come trascinata da un lontano moto di seduzione, come un piccolo clown appassionato che sbuca da una difficile nebbia.

E’ a questo punto che la mia -civiltà- vorrebbe cedere davvero, piuttosto che continuare a ridere avrei ora bisogno di piangere, non so bene nemmeno perchè.

Che il Libro Rosso l’abbia scritto Jung, che rappresenti un testo unico nella storia del Novecento e in quella dei testi divinatori sull’Uomo non vuol dire proprio nulla. Tantomeno che il mio geniale analista svizzero descriva la figurazione dell’Anima personale come qualcosa di eccessivo, di totalmente ingenuo e perfino -ridicolo-, se lo consideri nel senso comune che ci educa socialmente.

Il treno si ferma a Bologna con un sussulto. Scendo velocemente, dopo aver regalato una vecchia conchiglia dell’oceano indiano alla mia Anima che prosegue, ridendo estatica verso Venezia.

Corro via come un ladro, strappandomi tutta Giulia e il mondo intero di dosso.

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 PS: Avrei voluto scrivere una recensione su quest’opera esorbitante, ho mancato di un tanto il colpo. Arrivederci qui a febbraio, se destino vuole.


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