DUE DIALOGHI DALLE OPERETTE MORALI di GIACOMO LEOPARDI

Creato il 03 febbraio 2015 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr

Il Dialogo d’Ercole e di Atlante apre la serie dei dialoghi delle Operette Morali; invece, il Dialogo di Timandro e di Eleandro nell’edizione del 1827 era posto come testo conclusivo dell’opera. Ambedue i testi risalgono al 1824.

Il primo dialogo vede come protagonisti Atlante e Ercole alle prese con il mondo; il grande eroe è stato mandato da Giove per alleviare per qualche momento la fatica di Atlante, stanco di reggere l’universo.

Ma a sorpresa il vecchio dio spiega che il mondo, chiamato “pallottola”, si è fatto leggero; gli pesa di più il mantello che usa per ripararsi dalla neve. Il termine leggero non è riferito solo al peso materiale, in quanto Leopardi considera la parola anche in senso morale. Gli uomini sono mediocri, senza slancio, meschini. Infatti, i due personaggi notano che il mondo si è fatto anche silenzioso. L’umanità è muta, non ha nulla da dire, non si segnala più per attività e forza. Sembra che si tratti di un peso morto; il mondo non dà segni di vita e può stare in una mano di Ercole che volentieri lo usa per giocare. L’eroe ricorda il coraggio e la grandezza degli uomini quando lui compì le grandi imprese; un tempo, l’umanità affrontava a corpo a corpo i leoni, ora solo le pulci. C’è quindi in questo dialogo l’idea che in passato vi era un’epoca d’oro, ora scomparsa; in altri momenti del pensiero leopardiano l’uomo invece viene visto come tristo e infelice in ogni epoca. Qui si parla di un sopraggiunto peggioramento ed è più viva la polemica del poeta verso gli italiani suoi contemporanei, ritenuti incapaci si scuotersi dal torpore morale in cui sono precipitati. Ci vorrebbe una scossa per provocare una reazione. Capita che il mondo sfugga di mano a Ercole e cada malamente. L’ammaccatura sul pianeta non determina reazione alcuna; sembra che gli abitanti continuino a dormire. La “pallottola” resta muta oltre che insignificante. Non c’è quindi speranza di abbracciare un nuovo corso per l’umanità, sembra dire sconsolato l’autore. Rimane, felicissima, una battuta finale, in cui si scomoda il poeta Orazio: “Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l'altre una dove dice che l'uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s'è mosso”.

Ma il dialogo è prevalentemente satirico e gustoso, tanto da stemperare la forza della conclusione pessimistica.

L’altro dialogo, più corposo, è tra Timandro (ossia colui che onora l’uomo) ed Eleandro (ossia colui che commisera l’uomo); il primo personaggio rinfaccia al poeta le accuse che all’epoca erano scagliate contro di lui dai suoi contemporanei, l’altro rappresenta invece il punto di vista dello scrittore recanatese.

Si contesta a Eleandro/Leopardi di scrivere libri pieni di pessimismo in un’epoca in cui si parla tanto di progresso; gli si rinfaccia di ricordare all’uomo la sua bassezza, quando l’uomo senz’altro un giorno diverrà perfetto. Il poeta nel replicare ha modo di esprimere il suo articolato pensiero.

Non crede nel progresso (“le magnifiche sorti e progressive”), ritiene che l’uomo sia sempre stato un essere sfortunato e condannato dalla natura a soffrire. In fondo, si può aggiungere, lui la pensa come Tucidide e Machiavelli; gli uomini non cambiano da un’epoca all’altra, sono sempre preda delle stesse passioni e delle stesse sofferenze. Leopardi non ha fede nel sopraggiungere della perfezione umana. Dice che non può che dire e scrivere quello che considera il vero, ossia parlare dell’infelicità umana; non potrebbe invece parlare di progresso dato che non vi crede. C’è un forte nihilismo; tutto è vano, anche la testimonianza del vero è inutile. L’arte stessa non serve; la filosofia, raccontando i mali dell’umanità, non la rende certo felice e perciò la conclusione è che è meglio non filosofare. Conoscere la verità della propria condizione non porta giovamento perché l’infelicità è un dato “necessario”, non eludibile. Il sapere conferma l’infelicità, perciò, meglio astenersi dagli sforzi intellettuali.

Si salvano solo i libri che fanno appello alla fantasia e all’immaginazione o che ricorrono al riso anziché al commiserare, poiché ciò allevia il dolore del vivere, distogliendo dalle pene che restano però reali e inevitabili.

Se tutto è vano, anche la poesia lo è dato che al massimo distrae dal costante soffrire. Allora, ci chiediamo, perché scrivere? Forse perché un’umanità matura merita di sentirsi dire la verità, per quanto dura e amara. Può capitare che si reagisca duramente verso chi dice la verità che in fondo pochi vogliono sentire. Qui sta l’eroismo senza tempo del grande recanatese che si staglia con forza, bevendo l’amaro calice della solitudine e dell’incomprensione dei suoi contemporanei. Quando Timandro gli rinfaccia di scrivere libri fuori moda che biasimano l’uomo, la risposta è ficcante: "Anche il mio cervello è fuori di moda".


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