Due giovani a Londra

Creato il 01 ottobre 2011 da Albix

CAPITOLO TERZO

La storia di Mr. Winningoes

- “ Amici miei, è giunto alfine il momento delle spiegazioni. Vi sarete certamente chiesti quale sia lo scopo della vostra presenza qui, a Heavengate. Ma prima di arrivare al dunque, e cioè all’importante incarico che io intendo proporvi, consentitemi di illustrarvi la grande impresa nella quale tali prestazioni si inquadrano. Affinchè possiate comprenderne a fondo lo spirito che la anima ed il contesto nel quale il suo disegno si è sviluppato, è necessario che io vi narri, per grandi linee, le vicende più significative che l’hanno preceduta, a cominciare da quelle più strettamente personali riguardanti la mia vita.

Nonostante io sia un appassionato lettore di Dante Alighieri e di numerosi altri poeti e scrittori d’Italia, non mi sento di affrontare questa mia esposizione in lingua italiana. Vi so entrambi dotti cultori dell’italico idioma, uno per nascita, l’altro per adozione, e pertanto spero vorrete intrattenervi con me, se in seguito ne avremo l’occasione, sulle grandi opere dell’ingegno letterario dei vostri sommi scrittori. Nutro una personale preferenza per l’eccelso Niccolò Machiavelli, ch’io reputo essere stato per lo sviluppo delle istituzioni politiche della società moderna, ciò che Galileo Galilei è stato per lo sviluppo della Fisica e delle Scienze esatte: un genio di basilare ampiezza! Resta inteso che se qualche passo dovesse risultarvi di oscuro significato, mi interromperete a vostra discrezione e cercherò, con la vostra collaborazione, di ripeterlo in maniera più comprensibile” – .

Ciò detto il nostro uomo si fermò a sorseggiare dell’acqua, dandoci forse il tempo di interporre qualche commento. Tuttavia nessuno di noi due intese dire alcunché e, raccolto con gli occhi il nostro tacito assenso, l’uomo iniziò a narrare la sua storia.

- “ Nacqui nella Cornovaglia, magico suolo d’Inghilterra, da padre inglese e madre irlandese. Mio padre, Lord Isaac Winningoes, uomo di nobile e antico lignaggio, era un alto funzionario del governo britannico. Mia madre si chiamava Mary Josephine Parnell. A quel tempo la Gran Bretagna era ancora un vastissimo impero, e l’Irlanda, natìa terra di mia madre, ne faceva parte integralmente. Dopo un’infanzia felice, venni avviato agli studi classici, ma verso il mio sedicesimo anno d’età avvenne qualcosa che cambiò radicalmente il corso della mia vita. Senza alcuna apparente ragione mio padre mi ritirò dal Collegio e il giorno stesso del mio arrivo a casa, in una notte di tempesta, mi imbarcò su una nave, “l’Ulysses”, che ancorata a Land’s End, attendeva il mio arrivo per salpare.

Mio padre non volle darmi alcuna spiegazione e, nonostante lo implorassi piangendo, che non volevo partire senza neanche aver salutato mia madre, fu irremovibile. Mi consegnò due lettere: una per il reverendo Jacob Sevear, che sarebbe divenuto il mio dispotico tutore; l’altra per me, e la lessi tra le lacrime, quando le amate coste erano già lontane.

Conteneva , questa lettera, poche raccomandazioni sui principii che un figlio obbediente deve osservare, unitamente alla informazione che la mia destinazione sarebbe stata Baltimora e che avrei dovuto rimettermi interamente alla volontà del reverendo Sevear, che in sua assenza, lo rappresentava in tutto e per tutto.

La vita che mi attendeva al di là dell’oceano fu, amici miei, una vita davvero dura da sostenere. Certo, non mi mancavano gli agi, il cibo, o gli abiti eleganti, ma vivevo in un dorato isolamento, senza quasi nessun contatto con l’esterno. Il mio tutore era inflessibile nell’applicare quelle regole che, come egli sosteneva, gli erano state ordinate da mio padre: non potevo uscire, se non in sua compagnia; non dovevo possedere somma di danaro alcuna, provvedendo egli medesimo ad ogni mio legittimo desiderio; perfino i giornali e le riviste passavano per la sua attenta censura, prima che io potessi leggerli.

Dopo qualche tempo, la morsa delle mie catene si allentò un poco, ma ero e mi sentivo pur sempre un prigioniero ed il mio animo, offeso e violentato, trovò sfogo negli studi, in cui il mio tutore si mostrò uomo sapiente e precettore capace. Quante notti sognai di volare, con Icaro, oltre l’Atlantico o di veleggiare, come Ulisse, alla ricerca di nuovi, bramati approdi!  Quante notti piansi, pensando a mia madre, ai miei lontani lidi natii! Come sentii pesante, allora, la mano di mio padre sul mio capo e quella del mio   triste destino! Per quanto ci provassi, però, non mi riusciva di ribellarmi, di spezzare quelle catene che mi tormentavano. Ogni qualvolta escogitavo un piano per fuggire, lo rimandavo sempre, sperando che il giorno appresso una lettera dall’Inghilterra giungesse per me, e con essa la libertà, la fine del mio incubo e dei suoi misteri.

Finalmente, dopo anni di quella vita di segregazione,  giunse anche il tanto atteso giorno: la mattina del compimento del mio ventunesimo compleanno il reverendo Sevear mi consegnò una lettera di mio padre, nella quale egli mi narrava la vicenda che stava all’origine di tutte le mie sofferenze e che tanto aveva ed avrebbe influito anche in futuro,  sul corso della mia vita.  Ma la gioia per la tanto desiderata verità, venne offuscata dalla triste notizia, nella stessa lettera contenuta, che mia madre, la mia amata madre, era morta, due anni prima, nelle carceri reali di Primestone. Appresi così che mia madre, poco prima della  mia partenza per Baltimora, era stata arrestata con l’accusa di complotto per sovvertire le istituzioni e la Corona, accusa quanto mai grave, tanto più essendo mio padre un uomo al servizio dello Stato. Venne riconosciuta colpevole, e solo l’interesse che alcuni amici di mio padre dimostrarono verso di lei, la salvò dall’ingloriosa fine che colpì tutti gli altri capi della rivolta: l’impiccagione in pubblica piazza.

Ma la prigionia non si addice ad un animo nobile e sensibile, ed il suo cuore non resse all’affronto subìto.  “Il mio anelito di libertà non può reggere alla prigionia tra quattro soffocanti mura “, come ella scriveva in una delle poche lettere che le fu consentito scrivere, e che il reverendo Sevear aveva l’ordine di non consegnarmi prima del compimento del mio ventunesimo  anno di età.

Lo scandalo che seguì alla scoperta del complotto per liberare l’Irlanda dall’opprimente giogo degli Inglesi, travolse anche mio padre, che fu costretto dai suoi avversari politici a dare le dimissioni. L’aspetto dell’intera vicenda per me più agghiacciante fu costituito dal fatto  che era stato  proprio mio padre a scoprire e a denunciare l’attività segreta di mia madre, per la qual cosa egli mi chiedeva perdono e sperava che ne capissi le necessarie implicazioni morali, politiche e civili.

Come lo odiai, da quel giorno! Lo maledissi e lo stramaledissi, cento , mille volte, da quel giorno e per i giorni a venire! Come aveva potuto anteporre la sua stupida ragion di stato all’amore di una creatura fragile e dolce come mia madre? Perchè non l’aveva imbarcata insieme a me per sottrarla ai suoi carcerieri? Il suo re, dunque, valeva più della sua donna, nel suo cuore?

Si raccomandava quindi  alla mia  comprensione, poiché egli aveva agito per il mio bene, lasciandomi fuori, data anche la mia giovane età, dai clamori e dalla vergogna dello scandalo che aveva travolto il nostro onorato nome, e mi rammentava, infine, che solo Dio può giudicare l’operato degli uomini.

Quell’atroce contraddizione mi indusse allora a odiare anche il “suo” Dio. Se solo Lui, il suo Dio, poteva giudicare gli uomini, perchè aveva denunciato mia madre a una Corte di uomini?“-

Quell’incresciosa domanda concluse l’accorato monologo del nostro ospite, al quale avevamo assistito in religioso silenzio ma con viva partecipazione. Nell’evocare quei ricordi, che io immaginai remoti e dimenticati da tempo immemore nel suo animo; soprattutto parlando di sua madre, anche nella sua voce era comparso un tono velato di commozione. E non so se furono i miei occhi ad ingannarmi, ma mi parve di scorgere nei suoi  un vago luccichio di lacrime.

Fu questione di un attimo: si versò ancora un bicchiere d’acqua e bevutolo con avidità, si passò sul viso, fugacemente, un candido tovagliolo, con cui ne cancellò, repentinamente, ogni espressione. Restò poi immobilmente immerso nei suoi tristi ricordi, forse raccogliendo le idee per continuare il suo racconto. Giorgio lo aveva seguito per tutto il tempo con il mento appoggiato ai pugni chiusi sul bordo della tavola. Senza profferir parola, si accese una sigaretta, offrendone una anche a me. Con tono pacato e indifferente, Mr Winningoes riprese quindi a parlare.

“ Lo stesso giorno appresi dal mio tutore che io ero l’unico erede delle sostanze di mia madre, e che sin dal giorno della sua morte, lui ne era stato il fedele e oculato curatore, come mi avrebbe dimostrato nel suo rendiconto. Quell’uomo, che pure avevo tanto odiato e biasimato, ora che il suo ingrato incarico era giunto al termine, si dimostrò buono e comprensivo, e le sue parole lenirono un poco il mio inguaribile dolore. Oramai, però, dovevo pensare anche alla mia vita, ed in quei posti non sarei mai riuscito a scrollarmi di dosso il mio triste passato. Pregai il reverendo di continuare ad amministrare i miei beni e partii, alla scoperta del mondo.

Viaggiai dapprima negli Stati Uniti, poi in Canada, Australia, Nuova Zelanda, quindi nel continente europeo, senza che trovassi il coraggio di tornare in patria. Stanco dei Paesi Europei, tra i quali mi piacque maggiormente la vostra Italia, partii alla volta dell’India e infine, sempre bramoso di nuovi lidi, fu l’Africa.

Né le donne, né l’alcool, né le droghe né i vizi cui fui dedito in quegli anni riuscirono a cancellare i miei amari ricordi, finché un giorno, mentre soggiornavo in Kenya, caddi ammalato, preda di forti febbri malariche.

Non m’importava molto, allora, di vivere o morire, ma il Fato, evidentemente, aveva disposto che io sopravvivessi, affinché  si potessero realizzare quei programmi, quali avrò l’onore e il piacere di comunicarvi.

Rimessomi quindi dalla malattia, rientrai in America, puntando però verso il sud, che non avevo ancora visitato. Risalendo verso casa, mi fermai a lungo in Messico, che mi affascinò non poco. Ormai appagata la mia curiosità del mondo, preferii ributtarmi sui libri, più forte e sicuro di prima. Studiai di tutto: medicina, biologia, fisica, matematica, chimica, scienze occulte, illusionismo, magia, ingegneria, elettronica, astrologia, filosofia, astronomia, sociologia, antropologia, teologia, etologia, storia , scienze giuridiche ed  economiche, scienze  politiche ed ogni altra cosa attirasse la mia mente curiosa di nuove conoscenze.

Durante i numerosi anni di studio che seguirono, avvenne in me una graduale mutazione che sfociò,  di lì a poco, in una grande, luminosa rivelazione.

Mi ero accorto, approfondendo lo studio delle singole materie, che esse perdevano sempre più i loro, spesso pur sfumati, contorni e che tutte le conoscenze acquisite confluivano in un gorgogliante crogiuolo, a formare un unico, immenso nucleo di sapere.

Sì, cari amici: il nostro sapere è un tuttuno. Le singole branche dello scibile umano non ne sono che dei frammenti infinitesimamente piccoli che l’uomo cerca disperatamente di ricomporre alla originaria unità.

Due furono i necessari corollari conseguenti a questa esaltante scoperta. Il primo è che il cervello di ogni essere del regno animale costituisce, seppure ad uno stadio evolutivo avanzato, una microscopica parte della totalità primordiale. Il secondo è che il pensiero umano cerca, anche se in maniera cieca e disordinata, la ricomposizione, a livello mentale, della grande, primigenia esplosione, il Big-Bang, attraverso una lunga e faticosa marcia all’indietro, ripercorrendo gli innumerevoli anni-luce che lo separano, in direzione di un’altrettanto fragorosa e potente implosione. E se considerate che il nostro pensiero, specula nello spazio- tempo ad una velocità uguale a quella della luce stessa, questa sorta  di Big-Imbang finale vi apparirà assai meno lontano di ogni frettolosa previsione.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale mi colse di sorpresa su questo cammino di studi e di ricerche. Amaramente fui costretto a considerare che l’uomo perseguiva prematuramente la sua fine, piuttosto che la ricerca della verità. Ma allora non capivo che ogni umano accadimento, anche il più nefando e bestiale, ha la sua ragione d’essere e che per me, quella guerra, sarebbe stata un’altra fondamentale tappa sulla via della comprensione.

Quando i Tedeschi, violando gli accordi in precedenza presi, dichiararono guerra all’Inghilterra, attaccando Londra, decisi che il momento della mia riscossa era giunto, che era giunta l’ora di dimostrare che i Parnell amavano e combattevano per la libertà, sotto qualsiasi bandiera e contro chiunque ne opprimesse il suo libero esercizio. Mi precipitai in Inghilterra e mi arruolai nella Royal Air Force, nonostante vi debba confessare che, dopo il tradimento di mio padre, mi sentivo più irlandese che inglese, considerando anche che, allora, come oggi, l’Irlanda si trovava divisa in due, con una parte ancora sotto il dominio britannico.

Dopo un breve ma intenso addestramento venni assegnato, come io stesso avevo richiesto, avendone i pre-requisiti, alle squadriglie dei piloti di caccia.

Fra una missione e l’altra ebbi modo di analizzare più a fondo le cause di quei disastrosi avvenimenti. Ero stato, è vero,  negli anni immediatamente precedenti ed anche oltre, completamente dedito allo studio puramente scientifico dei fenomeni che stanno alla base della vita umana, ma non era certamente negli anni che precedettero la guerra che si dovevano ricercare le ragioni e le cause di essa. Le radici dell’odio e del male affondavano le loro appendici più estreme nei più intricati e profondi meandri della mente umana. Erano questi deleteri sentimenti,  così insiti nell’animo umano, le cause principali di quell’immane bagno di sangue.

Da queste premesse arrivai alla sconcertante conclusione che l’ idea di fondo della filosofia nazionalsocialista era giusta: l’umanità per salvarsi, aveva bisogno che una razza superiore si elevasse sulle altre e dominandole le conducesse alla salvezza. Ma non poteva certamente essere la razza teutonica quella prescelta. Né quella né alcun’ altra esistente poteva esserlo, perché doveva trattarsi di una razza che non conoscesse, nel suo cuore se non il bene e l’amore.

Con maggiore accanimento di prima, la mia furia e tutte le mie energie si indirizzarono contro l’odiato nemico: sfidai la morte dieci, cento, mille volte, sempre lasciando soccombente l’avversario. Piano, piano la verità si fece strada in me. I contorni del mio destino assumevano rilievi sempre più netti e precisi. Appariva sempre più evidente il ruolo che mi era riservato nella storia del mondo”.

Nel pronunciare le ultime parole Mr Winningoes, che già era andato via, via accalorandosi nel corso della narrazione, sollevò la mano destra, con l’indice teso, come un accusatore, ed i suoi occhi rotearono un paio di volte su sé stessi fino ad arrestarsi in un espressione folle.

Rimase per un tempo indefinito con quel dito a mezz’aria e gli occhi sbarrati che fissavano il vuoto, con i muscoli tesi come se avesse voluto levarsi in piedi. Sembrava una statua di marmo, immortalata in una posa grottesca. Questa improvvisa esplosione di apparente follia ci sorprese. Prima  che avessimo però il tempo di interagire, l’uomo parve riprendersi. Si guardò attorno, smarrito e imbarazzato e, afferrato un bicchiere d’acqua, lo vuotò tutto d’un colpo.

L’acqua lo acquietò. Negli occhi aveva ora una luce serena e ci guardava assorto, perso nei suoi pensieri o forse in cerca del filo interrotto del suo racconto. Accostò a sé il carrello portavivande e ci allungò un’ampolla di cristallo colma d’un liquido dal colore ambrato.

- “ Bevete, prego. E’ cognac della Charente, una delle poche cose che apprezzo dei francesi. Così dicendo si versò anch’egli una piccola dose in un corto calice bombato, spiegandoci che un cognac, per essere veramente buono, deve lasciare, se fatto roteare  lievemente, una lucente patina di colore nella parte interna del bicchiere.

Appena bevuto, provai subito una sensazione di caldo confortevole. Certo, pensai sul dolce abbrivio dell’alcool, quell’uomo doveva saperla davvero lunga sulla vita. Le sue teorie, quantunque mi apparissero astruse, avevano un loro suggestivo fascino. Immaginai il mio cervello implodere insieme a quello di Giorgio,  fondersi con esso e poi volare, come un razzo alato, nell’universo infinito.

La voce di Mr Winningoes che riprendeva a narrare mi riportò, con pari celerità, di nuovo a terra.

- “ Certo sapete come si è conclusa la guerra” – riprese l’uomo trattenendosi di seguito a discettare  sulle ultime fasi della guerra e  mischiando le sue vicende personali con alcuni   punti di vista alquanto originali rispetto alla interpretazione storiografica ufficiale.

- “ Ma vogliate scusare, amici miei, la digressione” – tornò a dire, riprendendo il solco principale della sua narrazione. – “Del resto, tali problemi, non mi interessavano allora né mi interessano oggi. Avevo la mia vita da seguire, ed anzi, l’uso delle bombe atomiche  in Giappone mi fece capire,  ancor di più, l’esigenza e l’urgenza di fermare la mano dell’uomo, pena la distruzione del mondo e l’estinzione di tutte le specie.

Quando venni congedato, come ufficiale pluridecorato, decisi di andare a far visita a mio padre. Sentivo ancora del rancore nei suoi confronti e forse, pensavo, gli avrei gettato addosso le medaglie del “suo” re. Ma i ricordi dei luoghi della mia felice infanzia mi avvolsero in un velo di commozione e quando vidi mio padre, vecchio e sconfitto, condannato su una sedia  a rotelle, capii che era ormai tempo di abbandonare i rancori.

Pianse, il vecchio, vedendo le medaglie che avevo conquistate nei cieli infuocati d’Europa. Con orgoglio mi disse che sapeva delle mie gesta eroiche, ed ora che il suo nome, la gloriosa casata degli Winningoes era stata pienamente riabilitata, poteva morire felice. Gli augurai lunga vita, lasciandogli le medaglie a consolazione della mia improcrastinabile partenza. I miei libri, i miei studi mi attendevano di nuovo,  negli Stati uniti, per una nuova esaltante tappa sul cammino della verità.

Nel riprendere le mie ricerche considerai che esse dovevano proseguire in una direzione obbligata, se era vero, com’è vero, che il cervello di ogni essere vivente contiene, ancorché modificata dall’evoluzione, la matrice originale della nostra esistenza. Mi buttai quindi risolutamente sullo studio del cervello: era quella la strada da seguire. Bisognava creare un super cervello capace di riprodursi e formare così una razza di super-uomini in grado di guidare verso il giusto cammino questa feccia d’umanità che dimora il mondo.

Dopo alcuni rozzi tentativi di ingegneria chirurgica, che mi occuparono per diversi anni e mi diedero, giunte a qualche successo iniziale, tante cocenti delusioni e amarezze, portandomi quasi al punto di rinunciare a tutto, fu il caso ad intervenire e ad indicarmi la giusta via.

Quale prova avrei potuto ancora pretendere? Gli stessi astri celesti intervennero direttamente! Un bel giorno,  infatti, mentre osservavo al microscopio il cervello di un gatto, ulteriore fortunata cavia, sottratta alle privazioni e agli stenti della vita per la gloria della Scienza, avvenne un accadimento strabiliante.

Avevo posto il piccolo organo del felino in una provetta cilindrica a collo aperto e vi rimuginavo sopra, cercando come sempre uno spunto per capirne il complesso mistero della sua composizione. Ad un certo punto mi venne voglia di mangiar qualcosa e me ne andai di sopra, lasciando inavvertitamente aperto il fuoco del microscopio. Mi accingevo a preparare una tazza di thé, con la quale accompagnare un frugale pasto di sopravvivenza , quando udii picchiare alla porta. La circostanza era abbastanza inusuale. Nessuno veniva mai a trovarmi, e Soledad, la governante messicana che si occupava del menage familiare come un angelo invisibile, entrava in casa a suo piacimento con la propria chiave.

Aperto l’uscio scoprii che si trattava  di un giovane uomo che si presentò come un emissario dello studio legale “ Heirs and Heirs” di Londra. Era venuto sin lì ad informarmi che mio padre era morto ed io ero stato nominato suo unico erede. Mi disse anche che se non avessi potuto o voluto rientrare in patria, lui aveva con sé alcuni fogli di procura per consentire al suo studio di sbrigare le cose più urgenti e l’ordinaria amministrazione. Firmai quelle deleghe senza neppure leggerle. Sul piano economico ora sarei stato più tranquillo che mai. I miei studi non avrebbero potuto che giovarsi di questo nuovo, decisivo  impulso finanziario. Ma perché non provavo dolore? Eppure lo avevo amato, nei giorni lieti dell’infanzia; e lui aveva amato me.

Pensando agli anni dell’infanzia e alle coste dell’amata e lontana Cornovaglia, terminai di consumare il magro pasto, poi tornai di sotto.

Notai subito che qualcosa di strano era avvenuto durante quella mia breve assenza. Nella provetta il cervello del gatto si era asciugato, acquistando un colore grigio e smorto. Ve lo estrassi con le pinze: sembrava una spugna secca, senza peso né odore. Che diavolo era successo? Fu un refolo di vento a darmi la risposta. In quel sotterraneo ove io svolgevo segretamente i miei esperimenti, non avevo lasciato se non una finestrella, che avevo voluto alla superficie del suolo.  Essa si era leggermente dischiusa, di quel tanto sufficiente a consentire il passaggio di un provvido raggio di sole che, immessosi nel circuito ottico del microscopio, vi si era riversato con tutta la sua possente energia, disidratando completamente l’oggetto dei miei esperimenti.

Ma il mio leggero disappunto iniziale si trasformò tosto in sommo giubilo, quando osservai meglio la provetta che aveva fatto da fornace a quell’imprevisto esperimento. Sul suo fondo riposavano alcune gocce di un liquido denso e luccicante! Ebbi un lampo, un’intuizione che poscia si rivelò esatta. Mirabilmente esatta, amici miei! Avevo trovato il modo per estrarre dal muscolo che contiene la vita, dal cervello che racchiude tutto il sapere di un essere umano, la sua stessa essenza. Un estratto, un condensato, che è il cervello stesso, ma libero dall’ingombro fisico, dalla poltiglia grigia che lo contiene. Libero dalla carne come l’anima è libera dal corpo, come l’idea dalla materia, come il pensiero dall’azione!”

Fine del Terzo Capitolo… continua…


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