Due Giovani a Londra

Creato il 25 ottobre 2011 da Albix

CAPITOLO QUARTO Il Nouchefalon

- “Come voi certamente saprete tutta la nostra energia mentale scaturisce per effetto di una semplice reazione chimica che si produce in continuazione nel nostro cervello. Tale reazione, che noi medici definiamo “sinapsi”, viene originata dall’incontro tra il liquido secreto nel cervello e le cellule in esso presenti. In pratica questo liquido, che ha eguale struttura molecolare in ogni uomo, funziona da rilevatore del tessuto cerebrale, la cui composizione è, invece, ciò che contraddistingue un uomo da un altro. Le intime ragioni di tale differente composizione del tessuto cerebrale, hanno vista da sempre divisa l’Umanità.

L’uomo, d’altronde, si è sinora dimostrato incapace di intendere la vera ragione della diversità degli esseri della sua specie. Un essere umano, dal punto di vista scientifico, è solo un prodotto di una concatenazione casuale dei composti chimici di base che dimorano le sue cellule. E tutta la sua attività è coordinata dalle cellule cerebrali.

Riuscire ad ottenere un distillato di quelle cellule, significava quindi avere a disposizione una sostanza dal valore inestimabile. Immaginate voi dunque, con quale emozione iniettai quelle gocce che si erano deposte sul fondo della provetta, ad una cavia. Il risultato fu sorprendente, maggiore e più significativo di quanto io stesso avessi potuto prevedere. Il topo, un normalissimo topo di età e grandezza medie, dopo dodici ore passate a dormire, si risvegliò.

Apparentemente sembrava lo stesso di prima, ma si muoveva però in maniera diversa. Aveva, insomma, un’aria diversa. Piano, piano, prese a camminare sulle punte dei piedi ed a muovere la coda in modo inusuale per un topo; per di più annusava e fiutava l’aria ed il suolo della gabbia. Con sempre maggiore sorpresa lo vidi poi stendere le zampe anteriori in avanti e, prima dondolarsi avanti e indietro; quindi, ritraendole, arcuare la spina dorsale sino a formare un’alta gobba. Il topo si muoveva come un gatto!

Era questo il risultato eccezionale! L’animale appariva irrequieto e prese a girare attorno alla gabbia col suo fare felino. Cercava sicuramente del cibo. Senza pensarci su gli diedi del solito cibo che davo ai topi, dopo averlo fiutato a lungo, con fare perplesso ne assaggiò un poco, riprendendo a fiutare l’aria sempre più nervoso e affamato.

Aprii un paio di scatolette di cibo per gatti e, sotto il mio sguardo allibito, divorò quel pasto in un baleno. Crebbe molto nei giorni seguenti, assumendo una mole doppia rispetto a quella dei coetanei della sua stessa razza, poi la crescita parve arrestarsi. La sua epidermide non aveva subito grosse mutazioni e neppure la sua struttura ossea, almeno esternamente, presentava dei caratteri peculiari rispetto a prima, eccezion fatta per i baffi e le zampe, che sembravano essersi trasformate per un uso più congeniale alle esigenze di un gatto. Nei movimenti e nel comportamento esteriore pareva invece un gatto: un gatto con le sembianze di un topo. Una domanda mi aveva assillato sin dai primi giorni dell’esperimento: che cosa avrebbe fatto quell’animale, se messo in compagnia con altri topi? E che cosa con altri gatti? Era esso divenuto un gatto o era rimasto un topo?

Con trepidazione lo trasferii in cattività con altri topi: fu uno squittire impaurito da parte di quei piccoli roditori che, evidentemente, avevano avvertito subito la presenza nemica. Si divertì ad inseguirli ed afferrarli come fanno i gatti con i topi, e alla fine, esausto e soddisfatto, si adagiò da un lato del gabbione, mentre i topini, alla parte opposta, facevano mucchio, impauriti e tremanti. Non sembrava per niente interessato a mangiarseli, forse perché era sazio o magari perché qualcosa dentro di se glielo impediva. La cosa, del resto, non mi interessava e lo trasferii quindi in compagnia di un gatto vero e proprio, ed anche lì il successo mi arrise: si comportarono come due gatti, amiconi e gioviali.

Pensai in un primo momento di tentarne la riproduzione, ma in effetti ciò sarebbe stata una digressione che, seppur interessante e suggestiva, mi avrebbe distolto dal mio obiettivo principale. Ad esso dovevo indirizzare tutti i miei sforzi, ed i risultati di quei primi esperimenti costituirono la base del mio successivo lavoro. Appariva chiaro, innanzitutto, che il muscolo cerebrale, in particolari condizioni di temperatura e di ambiente, quali si erano accidentalmente verificate quel fatidico giorno nel mio laboratorio, enucleava una sostanza particolare, liquida e densa, contenente i geni fondamentali, che io chiamo primari; quelli cioè responsabili dei caratteri più intimi e più propri della specie.

Appariva altresì evidente che tale sostanza poteva essere trasferita in un altro cervello e quivi crearsi un nuovo habitat nel quale rigenerare le sue cellule e con esse riacquistare le sue funzioni e i suoi caratteri originari. Verificai più volte l’esattezza di questi assunti, ma soltanto in una direzione, che io definisco evolutiva. L’esperimento aveva successo solo se l’essenza di un animale superiore, nei gradini della scala evolutiva, veniva immessa nel cervello di un animale inferiore, mentre nel caso inverso, il fenomeno si verificava in tono molto attenuato se non addirittura privo di rilevanza. Battezzai il liquido essente ‘nouchefalon’, e mi apprestai quindi a svolgere nella direzione predestinata i miei esperimenti. Cosa sarebbe accaduto se avessi trasfuso del ‘nouchefalon’ umano nel cervello di un altro uomo?”

A quella domanda, che Mr Winningoes aveva posto con estrema naturalezza, Giorgio si portò una mano alla bocca, rivolgendomi con gli occhi un indecifrabile messaggio. Poi, alzandosi di scatto e sempre con la mano alla bocca, si avviò di corsa fuori dalla sala.

Udii i suoi lunghi passi, su per le scale. – “ Mi dispiace tanto; mi dispiace davvero tanto” – disse l’uomo in tono rassegnato e dispiaciuto – “ ho cercato di introdurvi gradatamente al difficile argomento, per non urtare la vostra sensibilità, ma evidentemente non ci sono riuscito. Andiamo a vedere come sta il tuo amico?” – concluse d’un botto, alzandosi in piedi. Lo seguii verso le scale che portavano al piano superiore, non senza essermi prima scolato un’altra porzione di cognac. Diamine! Anch’io avevo accusato un sobbalzo emotivo a quell’angoscioso interrogativo, quantunque, a dire il vero, c’era da aspettarselo che quello sarebbe stato un necessario punto di approdo nel discorso di Mr Winningoes.

Incrociammo Giorgio che usciva dal bagno, con la faccia stravolta e i capelli un po’ bagnati.

- “ Tutto bene?” – gli chiese il nostro ospite senza ottenere alcuna risposta. Mi feci dappresso per chiedergli, a mia volta, come si sentisse. – “Bene, sto bene” – rispose schermendosi.

Poi sottovoce, eludendo l’udito di Mr Winningoes, che comunque si era tenuto discretamente a distanza, aggiunse in tono trepidante : -“ Che facciamo? Io me ne voglio andare subito da qui. Saltiamogli addosso e……………..”.

- “ Scusate amici “- disse l’uomo con voce suadente, tenendosi sempre educatamente a distanza – “ prima che voi prendiate una decisione, che pur vi spetta ed è legittima, vorrei chiedervi soltanto la cortesia di poter finire la mia storia. Non dovete aver paura di me: se avessi voluto farvi del male lo avrei potuto fare e ve lo dimostrerò. Seguitemi, per favore” . Così dicendo si incamminò per il lungo corridoio. Lo seguimmo svoltare a sinistra per poi fermarsi di fronte alla porticina in legno, in cima alle ampie scale che conducevano di sotto. Armeggiò nella serratura, rassicurandoci con uno sguardo mite. Una lunga scaletta a chiocciola, in ferro, ci introdusse in uno stanzone quadrato. La stanza era spoglia e malamente illuminata. Mr Winningoes si diresse verso la parete opposta all’ingresso e dopo avere aperta una grande finestra a due ante disse: – “ Affacciatevi ad osservare la scena sotto di voi”.

Ci affacciammo. La veduta dava su un ampio spiazzo, visibile oltre le chiome di alti e possenti alberi. Riconobbi la pista di atterraggio di cui egli stesso ci aveva informati al mattino. Considerai che dovevamo trovarci sul torrione centrale della costruzione. Dopo aver aperto uno sportello di legno, Mr Winningoes armeggiò quindi in una piccola nicchia incassata nella parete. Sembrava che il piccolo vano contenesse un composito quadro di comandi elettronici, piuttosto che dei contatori dell’energia elettrica, come sarebbe stato più logico aspettarsi. – “ Guardate, ora” – ci invitò l’uomo , ammiccando nuovamente con il mento oltre al finestra. Guardammo ancora: lo spiazzo aperto di poco prima era ora occupato da tutt’altra visione. Restai per degli interminabili secondi ad osservarla, allibito, incredulo, confuso, mentre il cuore galoppava veloce ed il sangue mi premeva alle tempie come se volesse schizzarne fuori. Trovai lo sguardo di Giorgio, esterrefatto e interdetto, eppoi guardai ancora di sotto. Con immutata emozione osservai nuovamente quella scena. La stessa scena che avevo visto, alcuni giorni prima, poco lontano da casa, stava ora lì, sotto i miei occhi! Tutto era perfettamente uguale: il grande recinto di tavole, le grosse macchine, immobili come mostri dormienti, il lungo traliccio in ferro con la scritta ‘Winpey’, in caratteri cubitali rosso-scuri. Fu con ammirazione e curiosità che mi voltai verso Mr Winningoes. Volevo sapere, dovevo capire che cosa stesse succedendo! Il vecchio mi fissò intensamente, con uno sguardo divertito e spiritato. Fantastico e pazzesco, diabolico e affascinante Mr Winningoes! Che accidente d’imbroglio stava tramando a nostre spese? Armeggiò di nuovo nella nicchia e ci invitò, con la solita aria complice, a guardare. La scena era mutata ancora: riconobbi subito il vicolo dell’Agenzia ‘Gehenna Geld’, col grande portone in legno e l’insegna di cartone mossa dal vento, come quel giorno. Anche questa scena non presentava niente di irreale. Sembrava semplicemente e naturalmente essere lì, in fondo, dove i nostri occhi la vedevano, identica al passato, ma viva e presente. Un trucco quindi c’era! Doveva esserci! Ma quale?

-“ Capisco la vostra meraviglia, amici miei, ma posso spiegarvi. Ciò che vedete esiste davvero. Fisicamente, però, esiste in un’altra dimensione. Se voi non foste così convinti che esiste solamente la realtà che ci viene sin dalla nascita, mostrata e spiegata; se voi quel giorno aveste dubitato di ciò che i vostri occhi vedevano, e con retta attitudine mentale ne aveste verificato la materialità, vi sareste accorti che tutto attorno a voi era illusione e non vi erano esattamente le cose che vedevate; cioè, vi erano, ma in un modo diverso da come siete voi ora, o questa casa o quegli alberi che delimitano l’immagine ivi racchiusa”.

– “ Un momento!” – esclamò Giorgio, sfoderando la sua grinta migliore – “ se noi quel giorno avessimo preso delle fotografie, ad esempio, sarebbero uscite o no, quelle cose che noi vedevamo?”. – “ Una macchina fotografica è soltanto un apparecchio meccanico, senza mente, senza anima. Non so cosa sarebbe uscito nella foto. Voi due sareste usciti di certo. O meglio, uno di voi sarebbe uscito. Ma non prendetevela a male. Nelle mie parole non voleva esserci niente di offensivo. Io ho speso una vita di studi e meditazioni per capire queste cose che vi appaiono inspiegabili. Vi assicuro però che esse sembrano tali solo nell’ottica della nostra realtà ordinaria, della descrizione del mondo che ci viene fornita quotidianamente e che, ripeto, diamo per assoluta e scontata. Come se la nostra vita fosse tutta nelle banali ovvietà di cui nutriamo la nostra mente. Ma non è così! Oh no, certamente! –

- “ E i due tizi che incontrammo lì, quel giorno? Anch’essi erano illusione?” – riattaccò Giorgio in tono battagliero, per niente appagato da quelle spiegazioni. – -“ Questo, amici miei, fa già parte del prosieguo della mia storia. Spero vogliate consentirmi di concluderla per voi. Non mi sottrarrò al vostro giudizio, ma concedetemi di difendermi semplicemente raccontandovi sino alla fine il mio travaglio di scienziato, di padre e di uomo. Sappiate, se ciò può tranquillizzarvi, che ho ucciso soltanto in guerra. Le guerre son sempre assurde, in qualche misura, e son volute dall’uomo per bramosia di potere, perché l’uomo è malato di debolezza e solo nel potere riesce a trovare un antidoto a questa sua innata deficienza. E anche se, dopo aver vissuto la guerra, il valore della vita umana, ai miei occhi risultava assai ridimensionato, sono stato preservato dal macchiarmi ancora di una tale infamia e forse, a pensarci bene, non poteva essere altrimenti, per me, che dovevo guidare l’uomo attraverso il sentiero della pace e della verità!”

Le parole dell’uomo parvero tranquillizzare Giorgio. Per conto mio, poi, non vi erano riserve. La mia adesione alla sua richiesta era del tutto incondizionata. Ci accordammo così, tacitamente, per ascoltare ciò che infine il vecchio Winningoes aveva da dirci. Dopotutto non sapevamo, ancora, incredibilmente, che cosa l’uomo volesse da noi. Ed in un modo o nell’altro era risuscito a catturare nuovamente la nostra attenzione.

- “ Dato che mi concedete gentilmente il vostro tempo per concludere la mia storia, lo faremo davanti ad una buona tazza di thè che io stesso voglio preparare per voi” – riprese in tono gioviale Mr Winningoes, sprizzando dagli occhi una raggiante e cameratesca soddisfazione. Ripercorremmo la stretta scala a chiocciola ed il corridoio; poi le scale e la grande sala dove avevamo pranzato, con la tavola ancora imbandita; alfine ci ritrovammo, passata un’altra porta, in un’accogliente saletta, arredata in stile rinascimentale, con dei quadri alle pareti, che se non erano degli originali, dovevano essere sicuramente delle stupende riproduzioni di opere dell’ingegno della migliore scuola pittorica di quella memorabile epoca. – “ Sarò di ritorno subito, mettetevi pure a vostro agio”- ci disse l’uomo allontanandosi. Ci guardammo in viso, Giorgio ed io.

Era soltanto dal mattino che non ci si trovava soli, però giuro che a me pareva un’eternità e, ne sono quasi certo, anche a Giorgio, che fu il primo a parlare. – “Una storia dell’altro mondo, è questa qua! “ – esclamò dopo aver fatto velocemente la ricognizione perimetrale dei quadri alle pareti, sedendosi in una delle quattro poltroncine in legno che stavano attorno ad un tavolo circolare al centro della saletta. – –“ Quest’uomo dev’essere matto, matto da legare! Mettiamolo fuori combattimento appena rientra e scappiamo, finché siamo in tempo” – aggiunse mentre mi sedevo di fronte a lui. – “ A Giò, ti sembrerà strano, ma io non riesco ad aver paura di quest’uomo! Mi ispira fiducia, nonostante le sue stranezze.” – “ Ma ti rendi conto? Sei uscito di senno anche tu? Quest’uomo deve avere dei poteri straordinari: non ci ha forse ipnotizzati poc’anzi? L’hai sentito anche tu vaneggiare di super –razze e di esperimenti sul cervello o me lo sono sognato io?” – mi aggredì Giorgio nervosamente.

- “ Sta calmo, Giò”- gli feci io tranquillamente. –“ Prima di tutto, io non credo affatto che ci abbia ipnotizzati, là sopra. Eppoi, se è così potente come tu dici, non sarà che per reazione sia lui lui a farci del male, se tentassimo di immobilizzarlo? Ragiona un po’: quando siamo arrivati qui, eravamo entrambi addormentati. Dunque se avesse voluto usarci come cavie, gli bastavano due punture e …KAPUT! D’altronde io non ho visto ancora né gatti che assomigliano a topi, né uomini con il cervello al quadrato! Chi ci dice che il vecchio non si sia inventato tutto? Non mi sorprenderei se, addirittura, questa storia fosse frutto della fantasia di qualche imbelle scrittore. Io voglio andare sino in fondo a questa vicenda. Interesserà anche a te, quantomeno, di sapere quale accidenti di proposta di lavoro Mr Winningoes ci farà, o no?”

Giorgio mi fissò negli occhi a lungo, pensieroso. Poi, senza rispondere, si adagiò sullo schienale della sedia, rilasciando i muscoli e respirando profondamente. Socchiuse gli occhi incrociando contemporaneamente i piedi, all’altezza delle caviglie, e le mani, che ripose sul grembo dolcemente, di modo che l’incavo della mano destra coprisse il palmo di quella sinistra. Mi parve quasi dormisse, mentre il solo respiro cadenzato animava il suo corpo. Vinto da tutte quelle inattese e susseguenti emozioni, lo imitai anch’io, sistemandomi alla meglio nell’ antica sedia di legno. Così ci trovò Mr Winningoes, tempo dopo. Il suo tocco discreto alla porta mi distolse dai miei assonnati e confusi pensieri. Riaprendo gli occhi lo scorsi destreggiarsi come un perfetto maggiordomo, mentre rientrava con un vassoio in una mano e con l’altra sistemava sul tavolino una tozza teiera in porcellana e tre tazzine senza manico, adornate con disegni ed ideogrammi cinesi. -“ Scusate se vi ho lasciati soli così a lungo “ – disse allegramente – “ ma fare il thè è una cosa molto seria, che richiede tempo e perizia. Servitevi pure, prego.” Colmai con molta attenzione le tre tazzine. Giorgio, presa la sua in mano, ne mirò e rimirò a lungo l’esterno e l’interno. Sembrò particolarmente interessato a dei piccoli petali giallognoli che galleggiavano in superficie. – “ Sono dei fiori di gelsomino “ – lo prevenne Mr Winningoes – “ Questo thè arriva direttamente dalla Cina. E’ delizioso, non è vero?” – aggiunse rivolto a me , che avevo iniziato a sorseggiarlo piano, piano, per non scottarmi. – “ Sì, certo. E’ molto gustoso. Le piace anche la cucina cinese? “ – gli chiesi a mia volta. – “ Oh, sì, davvero tanto !” – rispose illuminandosi in viso – “ Ricordo che quando era vivo mio figlio Adam…….”.

A quelle parole si spense d’improvviso quello sprazzo di luce che lo aveva illuminato poco prima e l’uomo, quasi afflosciandosi sulla sedia, divenne di colpo cupo e triste. – “ Mio figlio Adam…” – si fece eco amaramente, con un sorriso di autocommiserazione sulle labbra smunte. Osservammo un rispettoso silenzio per il dolore di quell’uomo che a tratti sembrava un leone orgoglioso e pieno di grintosi progetti per il suo avvenire, in altri momenti dava invece l’impressione di essere un uomo sconfitto dal dolore della vita e dal tempo. Avrei voluto padroneggiare meglio l’inglese per manifestargli la mia solidarietà e per dirgli che neppure sapevo che lui avesse avuto dei figli, che si fosse sposato, formando una famiglia propria; a parte, naturalmente, il padre e la madre, di cui ci aveva parlato nel suo racconto.

Ma non ne ebbi il tempo. Senza spostarsi dalla posizione che aveva assunto, con i gomiti sulle ginocchia e le mani sulle tempie, riprese con voce mesta a narrare. – “ Dopo tanto sperimentare e riflettere, decisi di compiere il grande passo. Avrei iniettato il “nouchefalon” di un uomo nel cervello di un altro essere della stessa specie. Il lavoro di base lo avevo già interamente svolto. Le premesse sembravano portarmi dritto al successo: tutti gli esperimenti similari condotti sugli altri animali erano riusciti. Così i cani, sin dalle prime iniezioni di “nouchefalon” canino, miglioravano sensibilmente il loro fiuto, la loro forza e tutto il complesso psicho-fisico dipendente dal cervello. Lo stesso poteva dirsi per i gatti; fatti oggetto di analogo esperimento, essi divenivano più agili, più forti e più furbi. E lo stesso era avvenuto ancora con i topi. Era chiaro, a quel punto, che le cellule del “nouchefalon” erano reversibili: potevano, cioè, essere ridotte dallo stato organico normale a quello di sintesi mediante processo termoattivo, e da questo essere riportati ancora allo stato originario, continuando a svolgere la loro funzione naturale. Certo, sottrarre dei cani al trastullo di padroni egoisti e insensibili o dei gatti alla loro misera esistenza di animali sterilizzati e incretiniti dalla stupidità dei loro padroni, mi ripugnava assai meno che privare una famiglia, un uomo o una donna dell’affetto di un viso amato. Ma infine, questo era ciò che voleva il destino, e la notte ideale era giunta, per me e per il mondo. E mi decisi così all’azione! Mi avviai verso i quartieri poveri della città, subito incoraggiato dal sorriso pieno della luna. Lì, dove maggiormente si soffriva, avrei trovato più facile procurarmi ciò che mi occorreva, consumare il necessario olocausto al riscatto dell’umanità. Non sapevo e non avevo idea sul da farsi, ma avevo una grande fiducia dentro di me. Mi inoltrai nelle misere strade e vi vagai a lungo, senza meta. Dopo tanto vagare, quando ormai deluso, già pensavo di rinunciare, delle grida attirarono la mia attenzione: due uomini litigavano, in fondo ad un vicolo, tra bidoni stracolmi di spazzatura. Mi defilai, per seguire indisturbato la scena. Dalle parole, i due passarono ai fatti e nelle loro mani comparvero i coltelli. Il più veloce e fortunato ebbe la meglio, riuscendo a fendere lo stomaco dell’avversario. Era quanto: mi precipitai di corsa verso i due uomini. Quello rimasto in piedi, che era poco più d’un ragazzo, si disperava, con le mani in testa. Il coltello, ancora stretto nel suo pugno, grondava sangue, luccicando vivo e rossastro al chiarore della luna. –

“Presto” – gli urlai concitatamente, scuotendolo dalla sua inorridita apatìa – “sono un medico, aiutami! Ho la macchina qui accanto: lo porteremo a casa per cercare di salvarlo”.


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