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Due grandi traduttrici e un capolavoro: Susanna Basso intervista Anna Nadotti

Da Silviapare
Due grandi traduttrici e un capolavoro: Susanna Basso intervista Anna NadottiAvevo parlato della traduzione di La signora Dalloway a cura di Anna Nadotti qui e qui.Qualche tempo fa è uscita sulla rivista Tradurre un'intervista della grande traduttrice Susanna Basso alla grande traduttrice Anna Nadotti. Ne riporto un brano, ma vi consiglio di leggerla tutta.
Di quale pagina, tratto, effetto stilistico o singole parole sei più orgogliosa?
Mi rendo conto che per rispondere in modo soddisfacente alla tua domanda avrei bisogno di molto tempo, di tutto il tempo, perché sfogliando il mio diario di traduzione ritrovo traccia di molti ragionamenti, ripensamenti e anche contraddizioni – forse inevitabili per chi traduce. Ci vedo luci e ombre. Ci vedo tutta l’ansia, e il sollievo e la gioia per le soluzioni trovate. Ci vedo infiniti puntini di sospensione… tu dai voce a me, io do voce a te… questo sembrano dirsi chi scrive e chi traduce. E sembra esserci un patteggiamento continuo.
Mi domando se il primo patteggiamento non sia in realtà tra la lettrice che c’è nella traduttrice, e l’autrice/autore. C’è in chi legge un’attesa più robusta, più sostenuta e gratuita che in chi traduce. Credo che solo se questa attesa è soddisfatta possa nascere una grande opera di traduzione. Ma vengo, almeno provo, alla domanda.
Ri-traducendo un capolavoro come Mrs Dalloway, ci si ritrova volenti o nolenti a fare i conti anche con le traduzioni preesistenti. Non solo in sé, ma per ciò che hanno determinato nel formarsi di un canone, di una tradizione. Mi sono interrogata molto su questo, è stata una delle cose più faticose.
Ti faccio un esempio che mi sta a cuore. A p. 38 (edizione Penguin Classic) Woolf scrive: Sally stopped; picked a flower; kissed her on the lips. Nella versione di Alessandra Scalero – l’unica esistente dal 1946 al 1993, quando uscì la traduzione di Nadia Fusini per Feltrinelli, e perciò la versione letta da varie generazioni di lettrici italiane – leggiamo: «Sally si fermò, spiccò un fiore, lo portò alle labbra e lo baciò».
E questo sarebbe stato the most exquisite moment dell’intera vita di Clarissa Dalloway?
Una svista? Un’autocensura? Una censura editoriale?
Le cose andarono diversamente:

Lei e Sally restarono un po’ indietro. Venne allora, passando accanto a un’urna piena di fiori, il momento più perfetto della sua vita. Sally si fermò, raccolse un fiore, la baciò sulle labbra. Fu come se il mondo si fosse capovolto! Gli altri scomparvero, e lei era lì sola con Sally. Ebbe la sensazione di aver ricevuto un regalo, ben incartato, con la raccomandazione di non aprirlo, di non guardarlo – un diamante, qualcosa di infinitamente prezioso,… (mia versione, p. 36).
Inutile dire che la traduzione di Nadia Fusini ha riportato sulla pagina il desiderio tra Sally e Clarissa, tuttavia la critica non ha mai messo a tema il fatto che per mezzo secolo Sally ha baciato un fiore, anziché l’amica Clarissa.
Restituire Sally e Clarissa a se stesse, vederne e ospitarne in traduzione i molteplici sguardi e desideri… non si è mai sole quando si traduce. Aggiungerei che è anche un «modo per cominciare a ragionare su una, radicalmente diversa, economia di condivisione». Sono parole di Nerina Milletti, in un saggio molto interessante, Poetiche e politiche lesbiche, sul formarsi di un canone letterario, che si può leggere in Poetiche politiche. Narrative, storie e studi delle donne, a cura di Cristina Bracchi (Il Poligrafo, Padova 2011).
Un altro termine su cui vorrei soffermarmi è crime: Next, there is no crime, dice fra sé Septimus, «il primo degli uomini chiamato a udire la verità, ad apprendere il significato» (p. 74, ma il termine ritorna alle pagine 99 e 105-108). Sia Scalero che Fusini traducono con «male», «il male non esiste»: una frase famosa, molto citata. Ma Septimus è appena tornato dalla guerra, dalla terra di nessuno dove gli amici esplodono al tuo fianco e i pezzi del loro corpo ti soffocano e ti annichiliscono. Septimus è l’uomo «recentemente portato dalla vita alla morte», perché è una morte giacere sulla panchina del parco «come un copriletto, una coperta di neve che il sole non scioglieva, per sempre integro, per sempre sofferente, il capro espiatorio, l’eterna vittima».
Non siamo nella sfera metafisica o religiosa del «male», a mio avviso. La guerra è il prodotto di scelte umane sbagliate, convulse, violente, è un «crimine» che si ripete. «Tutte le mie belle piazze scomparse» scriverà Woolf nel 1941, e sarà un’altra guerra, un altro crimine ad averle distrutte. Sembra di sentirlo, il dolore di chi in Dalloway scrive:

Non era bellezza pura e semplice – Bedford Place che porta a Russell Square. Erano la linearità e il vuoto naturalmente, la simmetria di un corridoio, ma erano anche finestre illuminate, un pianoforte, un grammofono che suonava; un senso di celato generare-piacere, che tuttavia di tanto in tanto emergeva quando, attraverso finestre prive di tende, finestre lasciate aperte, si vedevano gruppi di persone sedute a tavola, gente giovane che si aggirava con calma, conversazioni tra uomini e donne, cameriere che si affacciavano pigramente (insolito gesto il loro, a lavoro finito), calze messe ad asciugare su un cavalletto, un pappagallo, qualche pianta. Avvolgente, misteriosa, infinitamente ricca, la vita. E nell’ampia piazza dove i taxi transitavano e svoltavano così veloci, coppie di innamorati si attardavano, amoreggiando, abbracciandosi, rincantucciati sotto le chiome di un albero. Una cosa commovente, erano così silenziosi e assorti che gli si passava accanto con discrezione, timidamente, come se ci si trovasse dinanzi a un rituale sacro che sarebbe stato empio interrompere.
Di tale empietà – ripetutamente commessa – il termine «crimine» dà conto: «… noi non siamo salvi / noi non salviamo / se non con un coraggio obliquo / con un gesto /di minima luce», ancora Antonella Anedda.
Qualche passo di cui sono orgogliosa? Mah! già ho citato tante cose. Fin dalla prima pagina ho tentato di affidare la narrazione ai rumori – i rumori nella mia lingua. Le pagine della festa mi sembravano una grandiosa melodia novecentesca. Spero che si senta. E poi, per via del cinema e della poesia, ti segnalo questi due:
Si metteva un cappello, e correva attraverso campi di grano – dov’era stato? – fin su un colle, in qualche posto vicino al mare, perché c’erano navi, gabbiani, farfalle; si erano seduti su uno scoglio. A Londra anche, si erano seduti, e, nel dormiveglia, le giungevano attraverso la porta della stanza da letto gocciolio di pioggia, bisbigli, fruscii fra le spighe di grano, la carezza del mare, tale a lei sembrava, che tutti li accoglieva nella sua conchiglia tornita e mormorava a lei distesa sulla riva, sparsa si sentiva, come fiori gettati su una tomba (p.150).
In tempi immemorabili – quando il selciato era erba, era palude, al tempo delle zanne e dei mammut, al tempo di silenziose aurore – quella derelitta, quella donna – poiché indossava una sottana – con la mano destra tesa, la sinistra stretta al fianco, cantava l’amore – l’amore che è durato milioni di anni, cantava, l’amore che trionfa, e milioni di anni addietro, il suo amante, defunto ormai da secoli, aveva passeggiato, canticchiava, insieme a lei in maggio; ma nel corso delle ere, lunghe come giornate estive, e fiammeggianti, ricordava, solo di aster rossi, se n’era andato; la falce gigantesca della morte aveva spazzato quelle favolose colline, e quando infine anche lei avrebbe posato la testa incanutita e immensamente invecchiata sulla terra, divenuta ormai solo un cinereo nevaio, implorava gli dèi di posarle accanto un fascio d’erica purpurea, lì sull’elevato tumulo che gli ultimi raggi del sole accarezzavano; perché allora la gran parata dell’universo avrebbe avuto fine (p.194).

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