Tanto per cominciare, mi ripeto. E cioè metto un pezzo su un film uscito la scorsa settimana, The Master di Paul Thomas Anderson, di cui avevo già scritto da Venezia, qui sopra e su Filmidee. Sul film ho riflettuto parecchio negli ultimi mesi e l'ho messo, qui, tra i migliori dell'anno. Non so cosa ne pensi la maggior parte delle persone, probabilmente che un filmone oscuro e mancato, ma per me - e non sono il solo, ovviamente - è un oggetto piuttosto imprescindibile e necessario, a voler cogliere i segnali che lancia sulle possibilità del cinema nel nostro tempo. Se vi va, come sempre (e stavolta con una ragione in più, visto che sono stato un po' prolisso), ho provato a spiegarlo qui sotto.
The Master, inutile negarlo, è un film contraddittorio: maestoso eppure trattenuto, massimalista eppure intimista. Grande Hollywood che parla con il linguaggio ostico di un kammerspiele: difficile da ipotizzare, e pure da vedere. Ma non potrebbe essere altrimenti per un film che cerca di restituire le profondità della mente attraverso l’unica realtà rappresentabile, e cioè il corpo umano nella sua impenetrabilità. Ché in definitiva, nonostante le giustificate perplessità di chi ha faticato a coglierne il senso (in patria Roger Ebert, da noi Roy Menarini), The Master parla di questo: del corpo, della mente e del vuoto che li circonda. Parla di come al di là di un volto, nei pensieri e nell’inconscio di un uomo – di tutti gli uomini – non ci sia poi molto, a dire il vero quasi nulla. E di come, però, quel nulla sia la cosa più vera che possediamo.
Ci si chiede perché Anderson abbia scelto il 70mm, dal momento che il suo film è quasi tutto girato in interni e soprattutto basato su uno scontro attoriale che vive momenti giganteschi in corpi a corpi ravvicinati, in campi e controcampi così stretti da non lasciare nulla ai bordi dell’inquadratura. Anderson non è uno sprovveduto, e come Minnelli usava il formato panoramico per i melodrammi familiari, trasformando case borghesi anni cinquanta in praterie di solitudini, decide di sfruttare il grande formato non per allargarsi, ma per andare in profondità, per scavare nella testa dei personaggi e scoprire che oltre una certa soglia, che è quella definita da ciascun individuo per stupido che sia, né la religione né tantomeno il cinema possono spingersi.
Così facendo, a partire da un presupposto simile ma contrario a quello, poniamo, del recente cinema di Malick, The Master va a sbattere contro le porte della percezione e trova in ciò che resta dell’anima (di un uomo, e se volete anche di una nazione) un vuoto infinito. Per il cinema è uno scacco, una resa: ma è una palingenesi voluta, ricercata e necessaria.
Nel tentativo di scavare in profondità e aprirsi un varco nella follia dell’umanità, nel buco nero creato dalla Guerra mondiale, dalla Guerra fredda e prima ancora dall’utopia umanista di considerare il passato come l’origine di tutto, del male da espiare per arrivare alla liberazione, Anderson realizza una trascendenza dell’immagine e del cinema stesso che nessun stile visionario ed espressionista potrebbe realizzare.
C’è qualcosa di così moderno e inatteso nel suo film; e prima ancora, qualcosa di così inafferrabile in un autore che tutti credevamo il nuovo Altman o il nuovo Scorsese, e che invece sta portando avanti un discorso unico e ancora da decifrare nel panorama del cinema americano, da lasciare ammirati e stupiti. Anderson è diventato un regista molto meno appassionante e molto più respingente rispetto ai tempi di Boogie Nights e Magnolia; in modo imprevedibile, ha scelto di distillare cinema classico nella sua essenza più neutra, con corpi vuoti e volti rigidi, colori cupi e controcampi senza un’evidente impronta stilistica. Elemento fondamentale della sua svolta stilistica sembra proprio (e finalmente) una presa di coscienza straordinariamente onesta e lucida dell’impotenza dell’immagine di fronte all’inconsistenza razionale del pensiero.
Perché The Master è un film sulla follia come sguardo sulla realtà; e sulla follia come risultato del nulla da cui nascono il male e la sua banalità. Nonostante i sogni del mistico Lancaster Dodd che dà il titolo al film (quello che dicono essere ispirato al fondatore di Scientology), al fondo di ogni uomo non ci sono milioni di anni, frammenti di ricordi o addirittura vite passate, ma un eterno presente mosso da bisogni corporei e materiali. Al fondo di ogni uomo c’è l’anima gretta di Freddie Quell, il discepolo-controaltare di Dodd, un allievo che usa le teorie del maestro per scopare, che non sa far altro che menare le mani, che distrugge una cella con la potenza animale dei suoi muscoli, che si fotte un manichino fatto di sabbia, che dice a tutti di essere libero di muoversi e pensare, quando invece è solo vuoto, in un vetro vede solo un vetro, in un muro un muro, perché la sua libertà non è fatta di viaggi, di catene spezzate, di sogni in Cina, come gli canta nel finale il suo amico e mentore, ma di spazi vuoti, di un campo arato dove correre inseguito da nessuno, di un deserto dove puntare diritti verso un orizzonte sconfinato e così disperdersi nel nulla. La libertà, dopotutto, ha valore solo se si da dove puntare quando si parte verso l’orizzonte: ecco, forse, il senso della scena – bellissima – che ha fatto desistere Roger Ebert.
Nell’unico momento in cui Dodd apre la testa malata di Quell, Anderson trova una sequenza di cinema puro e potentissimo: come un frammento di luce, di illuminazione improvvisa. A partire da un campo controcampo di primi piani, Anderson entra nella mente e nell’inconscio senza allargare la sua percezione in quanto cineasta, ma scavando a fondo negli occhi vuoti di un essere umano: ciò che si vede sono ricordi, o forse creazioni illusorie di una mente malata che vive di rimpianto e frustrazione. Niente carrelli, niente steady, niente luci riflesse, niente rincorse verso l’inafferrabile essenza della realtà: solo una macchina a mano che si muove lenta, quasi non volesse violare l’intimità di un uomo che sarà pure ottuso e limitato, ma come tutti ha diritto all’inviolabilità dei suoi pensieri.
La grandezza di The Master sta così nella rivendicazione, anche e soprattutto attraverso uno stile oggettivo privo di fronzoli, al limite dell’aridità, di un diritto sacrosanto: il diritto all’inviolabilità del proprio io, di fronte all’invasione del pensiero altrui e, per l’appunto, dell'immagine e del cinema stesso. Nell’incontro tra i corpi di Seymour Hoffman e Phoenix, nel cinema che si espande solamente attraverso di essi, e non in virtù di una visionarietà a cui nessuno ha più diritto, risiede quella che per Anderson è la sola via da percorre per sfuggire alla saturazione di immaginario a cui siamo condannati: la via di uno sguardo che suo malgrado si contrae, che suo malgrado non penetra dentro nulla, ed accetta che là dentro, dentro di noi, ci sono il vuoto e soprattutto niente da raccontare.