Due introduzioni per Antonio Bux (2)

Da Narcyso

Antonio Bux, Antonio Bux, Trilogia dello zero
Milano, Marco Saya Edizioni
“Poesia Oggi”, 2012

NON È DOVUTO IL CAMMINO INSIEME

Nella saga della primavera descritta in musica da Stravinsky, assistiamo all’irrompere di forze devastanti: le zolle si spaccano e le radici dei nomi improvvisamente  si squadernano. Appaiono i corpi, svestiti dell’abito sociale e ammantati della rossa tunica del sacrificio. La terra, infatti, pretende il suo sangue e mentre figlia, uccide. L’irrompere tellurico dell’amore, come abbiamo sempre saputo,  segna l’insediarsi del regno del depauperamento. Questo avviene tutte le volte, e tutte le volte l’avvento va celebrato.

 Cosí lo celebra Antonio Bux: “Nel ventre del tuo corpo morto/cresce un germe infecondo/l’aborto della carne che geme/le nascite a venire della mente”. Oltre a tutto quello che già sappiamo, qui leggiamo di un coinvolgimento mentale, di una reverie a cui l’amore costringe per sopravvivere a se stesso. Contro le lacrime, lo scardinamento dei corpi, l’amore spinge l’essere a  rivelarsi, a ripensarsi come sostanza in sintonia con l’altro da sé; eppure più provvisoria rispetto alla propria indipendenza.

 Nel progetto globale dell’operazione poetica di Antonio Bux, questo è il momento di massimo investimento rispetto all’altro, alle ragioni profonde della vita.  Ma anche di maggior rischio per la parola. “Le lacrime sono una combustione/ultima di energie segnate/sconfitte dalla sfida con l’umanità:/cadono come pezzi di vetro,/graffiando l’interno del destino;/ma riflettono le cose/fuori nel diventare ombre,/perché quando un essere piange/tutto l’universo gli sospira dentro”. Dicono questi versi, fra i più belli, la forza dell’amore come smascheramento del sociale attraverso il versamento gratuito delle lacrime, non dipendenti dalle leggi di Minerva né consacrate alle regole del talamo. Figlie, piuttosto, dell’oscura forza ciclica delle radici, destinate a sfaldarsi e a ritornare come tutte le cose naturali.

 Bux cerca di controllare l’invasione dell’ineluttabile proprio attraverso la radice di una parola mentale, – generalmente contemplativa e toponomastica nelle prove maggiori di poesia d’amore del  novecento – ma qui frenata proprio dalla premessa: “E nasci, fiore di plastica./Non ti appartiene l’odore,/perduta la freschezza/-un’ombra come forma-/e incerte le venature;/niente da sprigionare,/né linfa, polline o colore:/solo un vuoto alla radice”.  L’aspetto funereo dell’amore è celebrato nello sfiorire mentre si nasce, nel vaticinare la fine mentre si è ancora all’inizio – già sembrano aborti i polloni appena dischiusi sui rami a primavera -.

 La colpa maggiore di amore è quella di smuovere le calme acque dell’infanzia dove niente avviene se non un’eterna contemplazione. L’amore procede malgrado i corpi, li lascia indietro, inadempienti a se stessi, feriti nella breve luce dell’abbandono. E i corpi non si bastano più dopo che l’amore se ne è andato. L’essere sconfitto da amore può ridisegnare il proprio profilo nel contorno delle cose naturali, in un contatto con l’ammantarsi di terra e di foglie. Forse una consolazione, ma, certo, nel tema del doppio e dello specchio che attraversa tutto il libro, la rinuncia alla contemplazione attraverso l’altro da sé, viene  vista come il disseccamento necessario per cacciare via la condizione umorale del dolore. Perché “non c’è profondità senza solitudine”.

 Sebastiano Tommaso Aglieco

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UNA PICCOLA ANTOLOGIA DI TESTI SCELTI DALL’AUTORE 

Da “Le ore nuove”  (Memorie dal giorno dopo)

TEMPUS TABULAE (CRONOVISIONE)

La polvere degli anni dura sui muri
mai crollati delle mani che abituano
i percorsi a segnare le ore lontane
pietre di carezze depositate in fondo;

e la parete decomposta fa del pianto
la precisione dello sguardo, la rivolta
del me bambino svuotare la stanza
lì dove decresce la misura del tempo.

LA VELOCITÀ DEL VUOTO

I mattini non hanno velocità
dall’alta finestra della solitudine

(osservano i luoghi dalla clessidra
già rovesciata nel vuoto dentro)

e hanno le notti forma di granello,
spessore invisibile che si insinua

al di là -nel vetro della memoria-
ché il ricordo si sporca di tempo,

e non ritorna pulito lo sguardo
nell’opaco di un nuovo giorno.

Da “Raices de zero”

“Nel ventre del tuo corpo morto
cresce un germe infecondo,


l’aborto della carne che geme
le nascite a venire della mente.”

III.

Non è dovuto il cammino insieme,
non è dato il fragore delle attese
nell’ora transitoria i vetri spegnere
le intese dei nomi, gli sguardi sottili
come dell’oggi  la mutezza dei sensi;
non è due il tempo, non la geometria
l’ossessione dell’aversi in angolo solo.

VII.

Esiste a volte un tuo pensiero a indagarmi:
viene a ricordarti una forma, un moto impreciso
nel non luogo, dove ritornando in avanti
nel punto più solo delle nostre stanze lontane,
fissiamo lo stesso vuoto distante – (ed è lì, ferma
in quell’ossicino di tempo, la paura di un saluto
la filigrana riavvolta, il nostro falsario occasionale).

IV.

E nasci, fiore di plastica.
Non ti appartiene l’odore,

perduta la freschezza
-un’ombra come forma-

e incerte le venature;
niente da sprigionare,

né linfa, polline o colore:
solo un vuoto alla radice.

V.

Le lacrime sono una combustione
ultima di energie segnate, sconfitte
dalla sfida con l’umanità: cadono
come pezzi di vetro, graffiando
l’interno del destino; ma riflettono
le cose fuori nel diventare ombre,
perché quando un essere piange
tutto l’universo gli sospira dentro.

VI.

“Si tende a dimenticare la vera origine

la pianta che alimenta senza la radice
quando nel silenzio della terra cresce
il seme del ricordo/dalla sete del futuro.”

Bisogna tagliare via questo filo invisibile
slegando l’anima dal principio delle cose,
(che non c’è profondità senza solitudine

né più cecità nella pupilla della memoria)
quando l’altrui caduta serve a riconoscere
l’esatta distanza dello sguardo da tutto.