Due modi di scrivere

Da Marcofre

Ci sono due modi di scrivere. Quello di chi pensa che deve solo scrivere; e quello di chi invece sa che alla fine la storia gli avrà svelato senso e significati che erano ignoti a lui stesso.

Il primo è il preferito da chi confeziona storie per il pubblico che “sa” cosa vuole, e infatti arriva il successo. È quello che desidera, e non deve sorprendere che accada.

Il secondo è più tipico di chi scorge nella storia che scorre davanti ai suoi occhi un’occasione per imparare. Innanzitutto fa spazio alla storia e compie quindi un paio di passi indietro. Non che sia umile chi scrive; di certo è al servizio della storia, è lei che importa.

Può apparire assurdo che sia necessario questo passaggio: in tanti credono che la storia non sia niente di che. Si tratta di cose che non esistono, pura fantasia. Ecco, solo questa sarebbe necessaria, la fantasia. E fare largo a cose che non esistono, pare ridicolo. Una visione agghiacciante, a parer mio: chi la pensa in questo modo non ha niente da imparare dalla storia che scrive. Pensa al contrario di sapere già tutto, e di poter piazzare la sua merce agli avventori.

Merce, o bene? Buona parte della narrativa ha a che vedere con questi due semplici concetti. Naturalmente non mancano le eccezioni. Basta ricordare che un’opera come “La Gerusalemme Liberata” fu commissionata, quindi pagata al Torquato Tasso. Adesso la sola idea di ricevere denaro per scrivere farebbe inorridire un mucchio di autori: privi di talento e genio, si capisce.

Quelli bravi coglierebbero al volo l’occasione.

Cosa dici? Mi contraddico? Ne siamo certi?

Al contrario. Prima di tutto c’è il talento oppure il genio, quella cosa grazie alla quale un autore (anche se prende un mucchio di soldi) si mette in cammino coi suoi personaggi. E impara qualcosa. Non è detto che alla fine lui sia migliore, o lo diventi, può accadere ma questo è irrilevante. Quello che fa la differenza è capire se l’arte alla fine esiste in quelle pagine, oppure se è solo bla bla bla, magari condito con rutilanti immagini di inseguimenti, eccetera eccetera.

Certo, è facile fare arte se mi chiamo Torquato Tasso e vivo nel Cinquecento, dove in pochi sanno leggere e scrivere. Qualunque cosa sopravviva alle guerre, agli incendi, alle devastazioni della natura che in passato erano all’ordine del giorno, ha l’etichetta dell’arte, vero?

No.

Non è sufficiente essere “vecchi” per avere l’etichetta di artistico. In realtà quello che fa la differenza risiede altrove. È in quel territorio incerto dove persino un autore si perde, e non sa dire come ci è arrivato. Lì succede qualcosa di strano perché la semplice storia che si racconta assume colori e spinge verso altitudini inattese. Chi scrive percepisce di essere alle prese con un qualcosa di inedito anche per lui.

Può solo tacere, e provare a rendere quello che ha scoperto nel modo migliore, al meglio delle sue possibilità. Ricordando sempre a se stesso che quanto possiede, la parola, è potente perché debole. La sua limitatezza lo costringe a conoscerla al meglio, a fare attenzione a cosa scrive. Non può contare sui gesti, sul tono della voce, ma solo su un armamentario limitato di strumenti: virgole, punti, punti e virgola. Parole appunto.


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