7 LUGLIO – In questi tempi bui di magre finanze, per viaggiare bisogna aguzzare l’ingegno. Era da un po’ di tempo che volevo vedere l’Islanda, ma continuavo a rimandare perché andarci in vacanza sarebbe stato un salasso insostenibile per me, sicché ho trovato una soluzione alternativa: sono andata lì a lavorare. In una serra di pomodori, per la precisione. Mi offrivano vitto e alloggio, e ogni giorno dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 15, raccoglievo pomodori, estirpavo erbacce, potavo piante e trasportavo tonnellate di vasi pieni di terra da una serra all’altra. Le serre appartenevano ad una clinica per la riabilitazione principalmente per persone che avevano subìto interventi ortopedici, molte delle quali erano obese, e il programma di recupero prevedeva, oltre alla fisioterapia, anche l’adozione di uno stile di vita più sano, cominciando da una dieta interamente vegetariana. Noi piccoli contadini (eravamo in otto, provenienti da tutto il mondo: un Erasmus 2.0) mangiavamo alla mensa della clinica, ed io, fervente carnivora, mi sono ritrovata a farmi due settimane di verdure e olio di fegato di merluzzo, che è la cosa più orribile che abbia mai assaggiato in vita mia. E sapete una cosa? Nonostante questa dieta e sei ore al giorno di pesantissimo lavoro fisico, non ho perso un grammo. Neanche uno, capite che ingiustizia? Ecco quanto può essere crudele e beffarda la vita.
Comunque, l’Islanda è un posto bellissimo. Ha dei paesaggi che non trovano riscontro qui in Italia, e per questo merita il viaggio, perché è qualcosa che noi non riusciamo neanche lontanamente ad immaginare. Il clima che ho trovato in maggio mi ha dato parecchio filo da torcere, un vento gelido che non dava mai tregua e temperature fra 2 e 9 gradi. Il nostro inverno è la loro estate. Gli islandesi prendono il clima con molta filosofia: ragazzi, è maggio! Praticamente è estate! E quindi il mio vicino di casa si metteva in giardino a prendere il sole in mutande. Un giorno in cui c’erano 4 gradi e una pioggia battente, ad una stazione di servizio ho trovato un tizio in bermuda, camicia con maniche rimboccate e occhiali da sole. Io avevo la giacca da sci e il berretto di lana calcato in testa, e un ghiacciolo che mi penzolava dalla punta del naso.
Studiando gli indigeni mi sono fatta l’idea che siano dei gran lavoratori, mediamente poco loquaci, salvo poi raccontarti la storia della loro vita tutto d’un fiato se gli fai la domanda giusta; hanno un senso civico notevole, tranne nelle serate di venerdì e sabato, in cui si devastano di alcol e trascorrono il resto della notte a scorrazzare in giro per le strade in macchina sgommando e facendo piroette con il freno a mano tirato. Sono pochissimi (circa 319 mila in tutta l’isola, anche se la maggior parte vive a Reykjavìk), e il loro cognome deriva dal nome del padre con il suffisso -son per i maschi e -dottir per le femmine. Il che crea alcune complicanze, perché essendo così pochi c’è il serio rischio che quella ragazza carina con cui Jònas sta per uscire stasera sia, ehm, una sua cugina. Onde evitare spiacevoli inconvenienti, esiste un albero genealogico nazionale che è saggio consultare prima di fidanzarsi con qualcuno.
L’elenco telefonico merita una menzione speciale nella rassegna delle bizzarrie islandesi. Gli abbonati sono in ordine alfabetico per nome di battesimo, e viene indicato anche l’indirizzo di casa e la professione. La cosa interessante è che non è necessario presentare alcuna documentazione per provare la professione dichiarata al servizio telefonico: ecco quindi che, scorrendo l’elenco, troviamo 3 domatori di alieni, 18 cowboy, 52 principesse, 14 acchiappafantasmi, 59 maestri Jedi e 2 incantatori di galline.
Mentre ero lì ho avuto modo di assistere all’evento dell’anno per il pubblico televisivo islandese: la finale di Eurovision. L’evento di cui noi in Italia a malapena siamo a conoscenza, in Islanda equivale per livello di isterismo alla finale dei mondiali di calcio. L’intera nazione ha trattenuto il respiro davanti alla televisione, tifando per il cantante islandese (che poi non ha vinto), un biondone con chiome fluenti e un nome impossibile da ricordare, che cantava un pezzo ultra melenso. Il video lo presentava nelle vesti di un pescatore che con salopette di gomma e berrettone di lana si ribaltava senza apparente ragione fuori dal peschereccio, nel mare assolutamente calmo. Annaspava per un po’, poi gli veniva in mente un disegno fatto presumibilmente dal suo figlioletto, e questo pensiero gli dava la forza di arrampicarsi di nuovo sulla barca, cascando pesantemente a faccia in giù in mezzo ai merluzzi. Estraeva dalla tasca il disegno tutto fradicio e pasticciato, e piangendo a fontana se lo premeva sulla faccia ringraziando il cielo di essere ancora vivo. A me faceva molto ridere, ma le femmine islandesi spasimavano ogni volta che trasmettevano questo struggente video, per cui mi sono convinta che lassù l’archetipo del vero maschio sia proprio il pescatore di merluzzi. De gustibus…
Insomma, non si finisce mai di imparare. Ancora una volta sono stata stupita dall’incontro con una diversa cultura, e ancora una volta ho avuto il privilegio di conoscere delle persone meravigliosamente strambe, ospitali e divertenti. Non vedo l’ora di ripartire…
Sarah Baldo
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