Due paroline, da profano, sulla teoria della “decrescita”

Creato il 03 aprile 2013 da Iljester

Da un po’ sento parlare di questa panacea di tutti i mali economici moderni, di questa eldorado dell’economia, la legge economica perfetta, il verbo della felicità e del benessere: la decrescita. I Grillo e i grillini in particolare ci hanno rotto a iosa i santissimi con questa teoria, e ora, da profano, cerco di spiegarvela in due parole, semplici semplici, tanto perché anche voi abbiate una visione d’insieme di questa teoria economica.

Prima di tutto, il concetto di “decrescita”. Secondo uno dei suoi massimi teorici (Serge Latouche), la decrescita comporta la riduzione controllata, selettiva e volontaria della produzione economica e dei consumi, con l’obiettivo di stabilire relazioni di equilibrio ecologico fra l’uomo e la natura, nonché di equità fra gli esseri umani stessi. 

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La critica dunque è alla moderna economia, e cioè all’idea che con la crescita (illimitata) del PIL aumenti anche il benessere e il livello di vita dei cittadini. Con la decrescita, invece, il miglioramento delle condizioni di vita non è direttamente correlata all’aumento del consumo di merci prodotte con risorse limitate (che implica semmai un aumento aritmetico del PIL e una maggiore diseguaglianza), ma al miglioramento dei rapporti sociali, dei servizi collettivi e della qualità ambientale, perché le risorse naturali sono limitate e necessitano di essere consumate e redistribuite con equità.

Una bella teoria, non c’è che dire. La decrescita (felice) comporterebbe minori consumi, più responsabili e consapevoli, maggiore equità, minori accumuli materiali e maggiore sensibilità per l’ambiente, nella consapevolezza che le risorse del nostro pianeta sono limitate. In altre parole, sembra essere una (feroce) condanna del consumismo sfrenato, del capitalismo e del concetto di crescita illimitata con risorse limitate; crescita che non creerebbe nuovo posti di lavoro, ma li cancellerebbe con il progresso tecnologico, creando strati di popolazione sempre più povera.

Ecco le critiche che invece provengono tanto dai liberisti, quanto dai marxisti. In sintesi:

  1. Per quanto riguarda i liberisti, questi ritengono che il mercato è capace di regolarsi da sé, e dunque è capace di trovare sistemi di sfruttamento di risorse alternative, quando una risorsa diventa scarsa (quest’ultima uscirà dal mercato o perché il suo prezzo diventa inaccessibile, o perché gli si sottraggono i fondi per investire su di essa a vantaggio di risorse alternative), creando peraltro nuovi presupposti per il raggiungimento del livello di massima occupazione e di benessere.
  2. Per quanto riguarda i marxisti, questi ritengono che la decrescita non tenga in considerazione che la crescita capitalistica non è finalizzata a produrre più merci in sé, ma a creare profitto. Perciò, secondo i marxisti, il controllo dell’economia è l’unico metodo che permette una crescita sostenibile. Nel momento in cui una risorsa non è più disponibile, l’uomo si rivolgerà ad altre risorse che permettano la crescita, ma senza aspirare al profitto, tipico dei sistemi capitalisti.

In verità, la teoria della descrescita, come tutte le teorie economiche che non tengono in conto la sociologia e l’antropologia, e dunque i rapporti umani nella loro concretezza, tendono a immaginare società utopistiche. Società che nella realtà non potrebbero mai esistere, vuoi perché i rapporti umani sono talmente complessi da non poter essere rinchiusi in una legge economica, vuoi perché gli esseri umani sono, per loro natura, profondamente egoisti e contraddittori: se la risorsa A è limitata, ci sarà sempre un gruppo umano che vorrà accaparrarsela in esclusiva a discapito degli altri gruppi umani o della natura stessa. Ergo, ci saranno sempre esseri umani privilegiati e agiati e altri poveri e diseredati. Perciò, per far sì che una teoria economica utopistica abbia applicazione concreta nella società umana, sarebbe necessaria un’autorità che la imponga con la forza. E cioè una dittatura. Come del resto è accaduto con le teorie socialiste.

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Non solo, se la teoria della decrescita, implica comunque una contrazione del PIL e una riduzione delle merci circolanti, degli oneri, dell’uso delle risorse di produzione, ovvero dell’inquinamento, nonché del profitto per i capitalisti che investono denaro per produrle, perché gli uomini iniziano ad autoprodurre in proprio ciò di cui hanno bisogno, è anche vero che un minore scambio di merci non comporterebbe affatto maggiore benessere per le classi più povere o per i paesi meno sviluppati. Il livello della qualità della vita si ridurrebbe e di molto, e così pure la salute dei cittadini, e si tornerebbe a un’epoca preindustriale, con la scomparsa dei servizi sociali e di assistenza, la sanità gratuita e l’accesso dei cittadini alla cultura e a prodotti di qualità a basso costo. Di fatto, si livellerebbe verso il basso il benessere sociale: tutti uguali (o quasi), tutti più poveri, tutti contadini e artigiani, magari con un’aspettativa di vita inferiore a quella attuale, ma in un mondo ecologicamente pulito e regredito tecnologicamente.

Da profano, ritengo che la teoria della decrescita non sia da buttare, ma credo debba essere rielaborata come “crescita responsabile”. Le risorse del nostro pianeta sono – è vero – limitate. Ma appunto perché lo sono, la crescita, pur rimanendo un obiettivo, deve tenerne in altissimo conto. Ciò dovrebbe comportare l’adozione di politiche di produzione industriale più ecologiche e attente alle risorse (magari pure con forme di riciclo di quelle utilizzate), l’uso di energia pulita illimitata, realmente a basso costo, politiche sociali che garantiscano la massima occupazione con un l’incentivazione della diversificazione dei mestieri e delle professioni, con una istruzione informata alla selezione e al merito, con il potenziamento della ricerca scientifica, e con un progresso tecnologico non orientato a incrementare il consumo, ma il benessere, perché benessere e consumo non possono essere considerati sinonimi. Il tutto in un contesto sociale fortemente identitario (da un punto di vista culturale e sociale) e che tuteli i valori fondanti della società umana. In particolare la famiglia naturale e la tutela della vita fin dal suo concepimento.


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