Fare paragoni è sempre un gioco a perdere ma oltre che di aspettative io sono campionessa mondiale di paragoni e mi vengono naturali come spostare i capelli se sono in imbarazzo. La Biennale, anno domini 2011, è la Biennale del “fermi tutti, facciamolo un po’ meno bene magari non se ne accorgono”; è la Biennale dell’accumulazione per dire che c’è crisi, grossa crisi o dell’accumulazione perché c’è Sgarbi e allora l’Arsenale non basta andiamo in tutte le regioni d’Italia a dire che siamo il nuovo che avanza, con lo stuolo di persone sempre uguale però, che potresti coprire un tratto di strada che va da Roma a Napoli, mettendoli in fila uno dietro l’altro. Però la Biennale di quest’anno è anche la Germania e la sua chiesa laica con al posto dei santi e delle madonne i lavori di Fluxus, è il Giappone dei disegni onirici in padiglioni bui, è il Belgio che essendo ospite in Italia ha ben pensato di realizzare un romanzo d’appendice sui volti di Berlusconi e Pasolini, dipinti con colori pastello. La Biennale è soprattuto la Grecia, per quanto mi riguarda, che poteva buttare tutto in caciara sempre perché c’è crisi e lei lo sa un po’ meglio di noi e invece un solo segno di luce e l’acqua limpida sulla quale cammini ti riportano in pace con tutto il resto intorno.
Poi Venezia è sempre lei, fortunatamente la stessa di cui mi sono innamorata due anni fa. In certi campi il tempo è fermo e la pausa dura il momento di uno spritz che costa ancora poco mentre le interazioni sociali sono identiche alle nostre a testimonianza, e a dispetto di bandiere e camicie verdi, che la loro come la nostra è una città di mare e nelle città di mare può cambiare solo l’accento ma il resto è bene o male uguale.
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