Qualche giorno prima della partenza ho cominciato, naturalmente, ad essere malinconica. Salutare Berlino è ogni volta un colpaccio al cuore, lasciare le mie cose e i miei amici, dirsi ciao ci rivediamo tra 10 mesi…con la consapevolezza che in fondo chissà se ci si rivedrà proprio lì o chissà dove, chissà se la mancanza di condivisione della quotidianità incrinerà quel rapporto o peggiorerà quello già raffreddato. Chissà cosa sarà cambiato ancora in questa città in un anno. Chissà come e quanto sarò cambiata io.
Qualche giorno prima della partenza pensavo che non volevo andarmene perché:
non volevo lasciare il mio comodissimo materasso,
volevo continuare a far la spesa con spensieratezza senza dover guardare i prezzi
volevo continuare ad essere coccolata dalle mie pareti colorate e piene di foto
volevo mantenere quella libertà di muovermi (senza macchina) e sentirmi libera, che qui non percepisco mai
volevo continuare a godermi tutti quei parchi in ogni dove e vedere bambini ovunque, tanti di mattina con i giovani papà (nel Paese dove esiste anche la paternità)
volevo continuare a fare le mie lunghissime passeggiate: da est a ovest per più di 10km – solo io, le mie gambe e i pensieri positivi
volevo continuare a condividere quelle infinite ore di shopping con le amiche spendaccione
volevo poter andare a rilassarmi al liquidrom
volevo sentirmi perennemente una turista alla scoperta di quegli angoli di Berlino che nonostante gli anni e le estati trascorse non sono ancora riuscita a vedere
volevo salire per la
volevo prendere il tram e i mezzi pubblici in tranquillità, senza paura, a qualsiasi ora, per arrivare ovunque (i paesi civili…)
volevo continuare a scendere in quella brutta piazza che è Alexanderplatz, alzare la testa e salutare la mia torre, respirare e sentirmi felice
volevo continuare a far colazione in quel posticino italiano nuovo dove hanno dei cornetti alla crema da far invidia anche ai bar in Italia e dei salumi “veri”
volevo poter ospitare di nuovo quell’amico dei tempi dell’università che è venuto per la prima volta a trovarmi
avrei voluto fare e rifare il mercatino dell’usato a mauerpark (che bella sensazione sapere che qualcuno là fuori indossa il mio passato)
volevo ancora delle serate mangerecce con una schnitzel gigante e le foto sceme al photoautomat
ma soprattutto volevo stare a due ore dalla mia famiglia, solo per avere quella certezza che qualsiasi cosa accada io potrò esserci.
Ma l’essenza della vacanza è che abbia una fine no?
Quindi sabato mattina le valigie non riuscivano a chiudersi perché insieme a tutti quei vestiti e libri, troppe erano le sensazioni da portarsi dietro, troppa la malinconia e troppi quei 9 mila km che avrei dovuto attraversare.
Ritrovarsi alla fila del controllo passaporti mi fa sempre una strana impressione, non mi sento a mio agio, mi manca l’aria coma quando atterro a Fiumicino, quel video che mostra “immigrati” sorridenti mi fa venire il voltastomaco. Quel mito americano non entrerà mai nel mio cuore, e questa è una certezza. Non sono io a decidere ma è la mia pancia: è una questione di pancia che ha deciso che non è il posto per me.
Ma mettere piede a Seattle – per la terza volta (!)- quest’anno fortunatamente è stato diverso: riconoscere tutto, notare le cose nuove che sono sorte in tre mesi, riprendere il ritmo in quella casetta minuscola fatta di incastri ingegnosi; prendere d’assalto il jet-lag in due giorni perché quest’anno ci sono troppe cose da fare. Maledire i ventunenni ricchi e gli stratosferici affitti. L’eccitazione per tutto quello che di nuovo mi aspetta. Ma anche ricordarsi di quanto sia oggettivamente bella e viva Seattle, salutarla, e anche un po’ ringraziarla perché dopotutto sarei potuta finire in qualche angolo statunitense decisamente peggiore. Sopravviverò anche qui per i prossimi 10 mesi, dai.
Ogni volta mi sembra che io viva due vite separate: una di qua e una di là, ma l’importante – per ora- è poter continuare a viverle entrambe.