Duecento anni di Orgoglio e Pregiudizio

Creato il 26 gennaio 2013 da Patrizia Poli @tartina

da CriticaLetteraria

di Patrizia Poli

Sono passati duecento anni dalla pubblicazione di “Pride and Prejudice” di Jane Austen, un romanzo che non fu mai associato al nome dell’autrice durante la sua vita; per tutti, la Austen era, e rimaneva, la scrittrice di “Ragione e Sentimento.”

Eppure non c’è romanziere, inglese ma non solo, che non faccia in qualche modo riferimento a questo libro. Elisabeth Bennet e Mr Darcy fanno parte dell’immaginario britannico, dai continui riferimenti in pellicole e testi di successo - ne parlano Meg Ryan e Tom Hanks in “c’è posta per te”,   scambiandosi tenere mail, ne sono una versione goffa e pasticciona Bridget Jones e Marc, guarda caso,  Darcy -  alle innumerevoli versioni holliwoodiane e bolliwoodiane che ne sono state tratte, questo libro è nel dna anglosassone.

Terminato nel 1797, dopo una pausa fra la prima e la seconda versione durata ben quattordici anni, e pubblicato nel 1813, non molto prima della morte dell’autrice, il romanzo si pone a cavallo fra settecento e ottocento, fra illuminismo e romanticismo.

La vita della Austen fu breve e ritirata, Praz, nella sua “Storia della Letteratura inglese” ne fa un ritratto che è, a nostro avviso, è una delle più brutte pagine di critica letteraria mai scritte. Tratteggia una donnina repressa, mai baciata da nessuno, la cui più grande emozione è quella del ballo. E meno male che poi si riscatta paragonandola a Vermeer, per l’attenzione ai particolari, per i ritratti d’ambiente e di personaggi al chiuso e all’aperto, nei salotti e nei prati.

Ammiriamo nella Austen,” ci dice, “la linda stesura notarile, la puntualità delle azioni e reazioni, come l’estremo limite dell’antiromantico, oltre il quale non c’è più arte ma mero discorso logico.”

Certo è che quello descritto dalla Austen nei suoi romanzi – pochi, a dire il vero, ma tutti pietre miliari della storia della letteratura anglosassone (“Emma”, “Sense and Sensibility”, “Northranger Abbey”, “Persuasion”) - è, in effetti, un ecosistema ristretto, tre o quattro  famiglie in zona rurale, lontane dalla scintillante capitale, dedite ai balli stagionali e alle visite reciproche. Conversation pieces, li definisce il Praz. La politica rimane fuori, gli avvenimenti storici sono lontani, il clangore delle battaglie non arriva nelle residenze di pietra, nella tranquilla campagna inglese, nei pascoli e nei boschi dove si passeggia motteggiando, dove i comportamenti e i vizi di certa borghesia dell’epoca sono messi sotto la lente d’ingrandimento e distorti, ridicolizzati, ingigantiti.

Niente a che vedere con i romanzi di Smollett, della Richardson, di De Foe, niente di picaresco in Jane Austen, piuttosto di arguto, di salace, di pensato. Conversazioni garbate, molto di quel witticism che era ancora sulla scia del Pope e di Sterne, molto di sensato, di ragionevole, di proper, che deriva dalla saggistica illuminista. Ma se il secolo dei lumi tramonta, già si profila all’orizzonte l’impeto romantico – certo non declinato qui in Sturm und Drang o nel tumulto delle passioni brontiane – e la Austen, suo malgrado, ne risente, e il sentimento trapela, da un gesto, da una parola, da un dispiacere soffuso, da un tormento del cuore.


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