Apre gli occhi e grida.
Urla, si dimena, batte la testa. Strilla finché le corde vocali non le si sono sfibrate e dalla sua bocca esce solo un gemito. Ma continua a sgolarsi isterica. E allora sembra un film muto, di quelli spaventosi.
Gli occhi sgranati, venati, le narici dilatate. E tutto quel sudore che le imperla il bel viso.
La crisi è incontenibile. E altrettanto inutile.
Un tale orrore, proprio a lei.
La peggior cosa che possa capitare a un essere umano. La peggiore.
Proprio a lei.
Senza motivo.
A lei.
Poteva capitare a chiunque.
So di essere arrossito, l’ultima battuta di Tiziana mi ha messo in imbarazzo.
Gli altri amici, seduti al tavolo, ridono chiassosamente.
Gratto la testa.
Franco mi dà una pacca sulla spalla. «Te la sarai mica presa?» dice.
«No, macché» balbetto.
Deglutisco, ho le guance in fiamme.
La pizzeria è un ambiente troppo chiassoso per me. Mi stordisce. Passo quasi tutto il tempo da solo, nel mio salone. E comunque, anche quando incontro persone parlo a bassa voce.
Fin da quando ero piccolo, il caos mi ha sempre messo ansia.
L’attrazione per il mio lavoro è stata una conseguenza. Il silenzio, quei movimenti misurati e lo sguardo mite…
Faccio il grossista di cofani funebri. O casse da morto, come preferiamo dire noi del settore. Cofani funebri è un termine riservato alle famiglie dell’utente finale.
Un’altra cosa che gli acquirenti non sanno, è che anche nel nostro campo le tette fanno vendere.
Avete presente i calendari che appendono i meccanici? Abbaglianti modelle sporche di grasso e con in mano una simbolica chiave inglese?
Stessa cosa.
La quasi totalità delle marche di bare che io tratto, manda calendari come gadget di fine anno. Ragazze procaci che cavalcano feretri. Nel nostro campo va di moda il ricercato. Il fetish, la lingerie provocante, i frustini. Spopolano i cappelli a cilindro, naturalmente. Fanno molto becchino.
Morte e perversione.
«Stasera non è tra noi» dice Angelo mentre infila in bocca un intero quarto di pizza.
«È vero» mi scuso.
«Dovresti trovarti una donna».
«Non credo di essere tagliato per le relazioni» gli rispondo a spalle strette.
Angelo mi vuole bene, ne sono sicuro. Lui è sposato e ha già quattro figli. È impiegato: fa i salti mortali per mantenere la famiglia.
Il sabato e la domenica mi aiuta in magazzino, per arrotondare.
Sono preda dell’ansia. Mi pesa stare qui. Trasmetto imbarazzo, come fossi un faro. Così finisco al centro di quell’attenzione che vorrei disperatamente evitare.
Infilo una mano nella tasca dei pantaloni. Prendo il cellulare, attivo il monitor. Mi collego alla telecamera a infrarossi.
L’immagine è verdastra e nera. La donna ha sempre gli occhi sgranati. Il viso è una maschera di sangue per quanto ha sbattuto contro le pareti della bara. Anche il raso è impregnato. Ovviamente non sa che io la sto osservando. Ma nonostante il buio, ha capito dove si trova. E che sta lentamente morendo.
Lo sa, come quelle che l’hanno preceduta.
Qualcuna è impazzita. Qualcuna purtroppo per lei è rimasta lucida fino alla fine e si è spenta come una candela accesa coperta da un bicchiere.
Quello che non capiscono è come possono durare tanto. Quanta aria può esserci all’interno di una bara ermeticamente sigillata?
Ma loro non sanno delle modifiche. Quando preparo la cassa da… morte… che le accoglierà, faccio due piccoli fori. Da uno passerà l’antenna per la microcamera. Necessario per un corretto invio dell’immagine. Nell’altro foro invece infilo un tubicino collegato a una bombola di ossigeno, per il ricambio dell’aria.
Altrimenti non varrebbe la pena fare tanta fatica.
Tiziana ha finito la pizza e ha ripreso il menù. È magra ma mangia come un manovale. Ordina una schiacciata e intanto racconta di quella volta che facevamo la gara in bicicletta e io sono finito nel laghetto del giardino pubblico e ho rischiato di affogare perché non so nuotare. Certe cose capitano solo a me.
«È vero» ammetto.
Ho messo via il cellulare. Seduto alla mia sinistra, Piero si era accorto che armeggiavo.
«Stai chattando porcone?».
Seguono altre pessime battute.
Lascio che si sfoghino e presto cambiano discorso.
Nessuno bada più a me. Sono nuovamente sparito.
Nel pomeriggio, la donna mi ha accolto in baby doll e reggicalze. Si è fatta da parte perché potessi accomodarmi nell’appartamento.
Prima i 200 euro. Le squillo di lusso si fanno pagare.
«Hai sette?» mi ha domandato poi.
«Sette?».
Si è spiegata versandomi un bicchiere di spumante rosé. «Tiénni».
Luce, ha detto di chiamarsi. Si è portata dietro il durissimo accento dalla Sardegna, che litiga con i suoi occhi celesti e i capelli biondi.
«Eeh… Ssonno paassatti i Nnormanni da casa mmia…» è scoppiata a ridere. Mi ha visto teso e ha cercato di mettermi a mio agio.
Le ho domandato se potessi servirmi del bagno. Non colpisco mai le mie vittime. Odio la violenza, mi terrorizza.
Luce mi ha indicato una porta alla fine del piccolo corridoio.
Mi sono chiuso dentro e ho estratto la bottiglietta del cloroformio. Ho svitato il tappo e inzuppato il fazzoletto.
Nemmeno un minuto dopo, Luce era a terra priva di sensi.
Avevo tempo da perdere. Non potevo di certo portarla fuori e caricarla sul furgone finché c’era luce.
Ho frugato tra le sue cose. La borsetta, prima di tutto. In realtà si chiamava Teresina Cossu, aveva 22 anni ed era nata a Cagliari.
Qui a Bologna frequentava l’università. Aveva con sé il libretto. Era al terzo anno di Storia e se la cavava egregiamente.
Aveva due cellulari. Uno per lavoro, l’altro privato. Molti messaggi dei suoi genitori e di sua sorella. Mandava foto provocanti al suo fidanzato, commesso in un negozio di abbigliamento maschile.
Nel tempo libero si dilettava a fare l’uncinetto.
Che passatempo singolare per una escort, o forse sono io che amo vederla così.
La verità è che mi piace entrare in punta di piedi nella vita delle persone. Sentirle vicino a me. Dividere la loro esistenza con la mia.
E la mia con la loro.
I cofani funebri.
Piero è andato in bagno. Ne approfitto e controllo di nuovo il cellulare. Luce è oramai sfibrata, la crisi ridotta a qualche sussulto. Non ha più voce né lacrime.
È il momento nel quale divento triste e ho davvero bisogno di stare con i miei amici. Anche se mi prendono in giro, non importa. Ho bisogno del loro affetto.
Io sono solo al mondo. Mio padre è morto, mia madre non l’ho mai conosciuta.
Né nonni, né zii o cugini… è un peso, sapete, essere consci che un giorno diventerò vecchio e debole, alla mercé di chiunque vorrà abusare di me.
La serata è finita. Pago io la pizza e la birra di Angelo.
Rincasiamo.
Passo dal magazzino. Una struttura enorme trasformata in un salone dalle pareti rivestite di panno rosso bordato in oro. La concorrenza si limita a capannoni freddi e impersonali, senza nemmeno il riscaldamento. Credono che trattare con le imprese di pompe funebri – e non direttamente con i clienti – li autorizzi a degradarsi al rango di semplici commercianti.
Inorridisco al pensiero.
Mi avvicino al carrello su cui ho sistemato la bombola dell’ossigeno che sta nutrendo Teresina.
Chiudo la manopola, sfilo il tubicino e tappo lo spiraglio con una pallina di silicone.
Bacio la bara. Riposa adesso, piccola amica mia.
Visto da qui, il salone è davvero imponente. È l’esposizione più grande d’Italia.
Oltre duecento modelli. Per uomini, donne, bambini. Per obesi, perfino per i nani.
Duecentosei bare sopra eleganti cavalletti in legno di noce.
Duecentosei bare in esposizione permanete. Ventidue già piene di amici silenziosi.
di Roberto Carboni
Per Duecentosei bare” ho scelto i lavori della serie Necrofashion di Katarzyna Widmanska, di cui potete approfondire la conoscenza cliccando qui oppure anche qui.