Una svolta storica, soprattutto in una cittadina che solo quattro anni prima non aveva ritenuto opportuno costituirsi parte civile nel processo sull’omicidio che l’ha resa famosa: quello del giovane commerciante Gianluca Congiusta. È stato Mario, il padre del ragazzo, a far accendere i riflettori su Siderno.
Prima dedicando, giorno dopo giorno da quel 25 maggio 2005, diciotto mesi alla protesta davanti al Tribunale di Locri, sciopero della fame incluso, fino al momento in cui i presunti assassini di suo figlio hanno avuto un nome e un volto. Interrompendo così la lunghissima sequenza di morti ammazzati dalla ’ndrangheta senza colpevoli, e dunque senza processi.
Poi convincendo molte istituzioni e associazioni a costituirsi parte civile. Infine ottenendo, dopo cinque anni e mezzo, le condanne degli assassini del figlio.
Nulla potrà restituire Gianluca alla sua famiglia. Ma certo Mario ha vinto il primo round, togliendo il suo cognome dalla lunga lista di morti dimenticati.
Allora il comune dove Gianluca era nato, era cresciuto ed era stato ammazzato in una notte di fine maggio, stabilì: “non c’è legittimazione ad agire in quanto non pare che l’omicidio, seppur deprecabile ed in danno di un cittadino onesto e laborioso, abbia provocato un qualsiasi tipo di danno all’immagine dell’ente”.
La scorsa settimana ha avuto ampia eco la notizia che la ’ndrangheta di Gioia Tauro dovrà risarcire la Provincia di Reggio Calabria. Nove milioni di euro per il “discredito arrecato alla reputazione e all’immagine dell’Ente e alla sua popolazione, in virtù della presenza nel proprio territorio di tali consorterie mafiose”. I tempi cambiano. Cambia anche la percezione dell’immagine e della sua “onorabilità”.
Uccidere un ragazzo in un agguato notturno non ha lo stesso valore, in danni di immagine, dell’utilizzare l’intimidazione per “trarre illeciti profitti dalle attività economiche, in gran parte finanziate dallo Stato, da altri enti pubblici nazionali e dalla Comunità europea, per il completamento del porto, l’inizio della sua attività e l’adeguamento e sistemazione della circostante area”. Ovvio costituirsi parte civile nel processo alle ’ndrine Piromalli-Molè, monarchi di Gioia Tauro, nonché ai Pesce e Bellocco, egemoni a Rosarno e San Ferdinando. Sacrosanto. Ma.
Ma vengono dubbi. Vengono domande. E non solo nel cercare di capire la diversità di posizione, sia degli amministratori che dei mass media, su due reati di mafia così diversi eppure così uguali.
Soprattutto, ci si chiede cosa sia davvero un danno di immagine: quelli di una classe politica che sta portando sempre più giù la Calabria, il Mezzogiorno, la nazione, sono danni di immagine? Quelli che dimostrano una palese disparità di trattamento tra ipotesi di reato, a seconda che ad esserne coinvolti siano singoli e sconosciuti cittadini o, invece, personaggi di spicco, sono danni di immagine? Questa insana commistione tra malaffare, politica, poteri economici e istituzioni, che avvicina due città di confine come Ventimiglia e Reggio Calabria, sono danni di immagine?
“Tutto è perduto fuorché l’onore”, dunque? Così il re di Francia a Pavia si arrese all’avvento delle armi da fuoco. Dopo cinquecento anni rimane solo l’onore. Quello da difendere per i danni di immagine e quello delle onorate famiglie. [il futurista nr 35]
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