Il libro raccontava la vita di Francesco Dellamorte, becchino nel cimitero di Buffalora dove i morti hanno un vezzo: ritornano. Francesco, dopo quell'interessante romanzo, era diventato il doppio di Dylan Dog in uno storico albo Bonelli dal titolo Orrore nero. Per cui ecco la lampadina accendersi nella testa dei giovani filmmaker Romoli e Corsi. Non possiamo fare Dylan Dog? Bene. Allora facciamo Dellamorte Dellamore chiedendo allo stesso attore che ha ispirato il corpo dell’indagatore dell’incubo quella sera che Tiziano Sclavi tornò da una visione di Another Country (1984) di interpretare il becchino di Buffalora. Tanto è il suo doppio, no? E sapete che rispose Rupert Everett? “Eccomi, sto arrivando”. Cosa fu Dellamorte Dellamore per noi italiani? L’ultimo canto del cigno nero. Dice Romoli: “Un film sull’identità sceneggiato da un depresso (Romoli, N.d.R.), tratto dal libro di un depresso (Sclavi, Nd.R.). Tutta la vitalità ce l’ha messa Michele Soavi”. E anche il corpo turgido di Anna Falchi, ci permettiamo di aggiungere. Dellamorte Dellamore fu il nostro ultimo horror barocco e morboso con ambizioni internazionali nella grande tradizione che ci aveva visto eccellere dai tempi perversi di Freda e poi Bava e poi Fulci e poi Massaccesi e poi Argento (Soavi era stato svezzato dagli ultimi due).
Un film che oggi appare magnifico, divertentissimo, ironicamente truculento grazie a un super Sergio Stivaletti all’effettistica prostetica, adorato da Martin Scorsese (che copiò uno zoom out geniale di Soavi nella sua pubblicità del Blue de Chanel con Gaspard Ulliel), dal finale surrealista ancora oggi magnetico (e diversissimo dal romanzo) prova del fatto che Soavi era pronto a succedere ad Argento (che già mostrava segni di forte stanchezza) e che Romoli (anche sceneggiatore) e Corsi (si era ipotecata casa, la signora) erano stati dei produttori lungimiranti. Per noi italiani era l’occasione di dire: “Rieccoci. Lo sappiamo ancora fare questo cinema qua e quando lo facciamo… silenzio in sala”. Everett, assai divertito dall’esperienza con quei pazzi mangiaspaghetti, disse ai realizzatori alla fine delle riprese: “Facciamone subito un altro!”. Ma “l’altro” cosa poteva essere se non Dylan Dog?
Uno pensa: “Hai il modello di Dylan Dog completamente conquistato che ti chiede di fare Dylan Dog. Cosa altro di più puoi volere dalla vita?”. Sorpresa, sorpresa: Bonelli vende i diritti alla Miramax. Uuaarrrgghh! Suonano alla porta. Chi sarà mai? La Fine. Si entra in un limbo esistenziale a metà tra la palla di vetro di Buffalora, la zona del crepuscolo e il mondo di Aspettando Godot dove gli anni passano e nulla accade. Gli americani bloccano tutto e i fan invecchiano e cadono in depressione. Il 1994 è l’anno del nostro ultimo grande horror da esportazione (Dellamorte Dellamore) e l’inizio, almeno per lo scrivente, dei 20 anni più orribili, stupidi e deprimenti del dopoguerra italiano. E sapete anche perché? Perché ci siamo fatti fregare Dylan Dog. Quanto può essere idiota e autolesionista un paese che si fa soffiare da un altro paese un proprio patrimonio culturale, artistico ed economico del livello di quel fumetto capolavoro adorato da migliaia di lettori entusiasti tra cui c’era pure un certo Umberto Eco. Nel 1993 il Dylan Dog Horror Fest portava ottomila cinefili horror al PalaTrussardi di Milano da tutta Italia. E noi dilapidammo tutto ciò pur avendo un Rupert Everett totalmente sedotto da Romoli, Corsi e Soavi.
2010 Tutti noi fan di Dylan Dog siamo diventati dei vecchi italiani depressi che vivono in un paese depresso. Arriva il film Dylan Dog dagli Usa. Toh… ma allora era vero che prima o poi lo avrebbero fatto. I diritti erano passati di mano in mano fino ad arrivare a gente che realizza un horroretto giovanilista diretto da Kevin Munroe dove non c’è il campanello urlante, non c’è Groucho e “Giuda ballerino” si dice solo una volta. Siamo a New Orleans (e non Londra) e Dylan, che un tempo era un “giudice imparziale dei mostri” (?) fa il vigile urbano tra vampiri che gestiscono night club, lupi mannari che lavorano in macelleria e zombi che servono fast food. Una commediola horror per bambini sulla scia di Buffy. Dylan è il blando Brandon Routh, in passato già il Superman meno super della Storia del Cinema. Tornammo a casa sempre più affranti. Non era colpa degli americani. Era stata solo e tutta colpa nostra.
2014 Qualcuno non ci sta. Claudio Di Biagio e Luca Vecchi hanno deciso di no. E con loro un sacco di gente che ha dato alle due star della rete un po’ di soldi in crowdfunding per realizzare un fan movie di Dylan Dog. La cosa è no profit ma altamente significativa. Che dire? Bravissimi. Il sottoscritto aveva una marea di pregiudizi... E invece… ecco finalmente una generazione di ambiziosi filmmaker che dice: adesso basta! Dylan Dog è roba nostra e ce lo riprendiamo! Interessante la comunione d’intenti. Di Biagio è sempre stato molto acuto, fin dai tempi della serie web delle serie web Freaks! che lo lanciò del tutto, nel dire: “Ma perché il genere fantastico non può essere ambientato a Roma? Perché non possiamo avere supereroi e superpoteri vicino al Colosseo o alla Tangenziale?”. Aveva ed ha perfettamente ragione il 26enne Di Biagio. Luca Vecchi è un altro animale. Viene dai primi Moretti e Kevin Smith e con i compari del collettivo The Pills ha realizzato la commedia giovane del momento a base di droga, quartiere romano del Pigneto (per Moretti era Piazza Mazzini), sesso e un po’ di giusto nichilismo generazionale (questi sono quelli cresciuti nel drammatico ventennio italiano 1994-2014; è un miracolo che ancora si alzano la mattina) declinato in chiave comica alla Smetto quando voglio (2/3 di The Pills in cammeo in quel film) del nostro amato Sydney Sibilia, non a caso prodotto dai bravissimi produttori The Pills Matteo Rovere e Andrea Paris della Ascent Film. Diciamo che Di Biagio è più pop e ottimista mentre Vecchi è più punk e pessimista. Interessante e stimolante per tutti noi il loro incontro per il fan movie Vittima degli eventi. Luca scrive la sceneggiatura e interpreta Groucho Marx. Claudio dirige. Alla fotografia il bravissimo Matteo “Canesecco” Bruno e al montaggio Giovanni Santonocito.
Entriamo nel vivo. Ci sono un sacco di cose morte in questo pilot. C’è una ragazza che vede, forse, una se stessa del passato mentre passeggia col fratello verso Castel Sant’Angelo. A quel punto chiamerà Dylan Dog, investigatore dell’incubo, per cercare di capire cosa le sta succedendo. Uuaarrrgghh! Suonano alla porta. Ma come? Dopo New Orleans adesso troviamo Dylan Dog a Roma? Ci sta. Ci sta tutto. Non solo perché, come dirà a Dylan un Massimo Bonetti in versione Divo Nosferatu di Sorrentino: “La storia è destinata a ripetersi. Strani eventi, stessi individui, magari posti diversi, epoche diverse, mondi diversi ma le dinamiche… le stesse, immutate”, ma soprattutto perché la città si presta perfettamente a questa storia di fantasmi del passato ed interni asfissianti.
Gli spazi di questi 50 minuti di prodotto audiovisivo sono semplicemente brillanti. Interni angusti, polverosi, pareti ricoperte da arazzi, alambicchi, animali impagliati, libri, creature incappucciate ansimanti, lampade a gas, talismani, quadri scrostati, candele consumate e legno marcio. E’ una Roma di aromi molto sexy, sussurrante e scricchiolante, dalle case piene zeppe di saporiti odori e croccanti orrori. Roba da erezione adolescenziale. Bravissimi. Questo è Dylan Dog. Interni così cupamente rigogliosi ci fanno tornare in mente la magione della nonna dove andavamo a pranzo da piccoli sentendo quel lezzo dolciastro, eccitante e repellente, della morte in arrivo e un po’ quegli appartamenti soffocanti dei reclusi drogati londinesi alla Blow-Up (1966) o Sadismo (1970) dove viveva la rockstar reclusa di Mick Jagger e bastava stringere leggermente l’obiettivo per poter essere in una fumeria d’oppio di Pechino. Lo scenografo Michele Modafferi e la costumista Federica Scipioni hanno realizzato un lavoro sublime. In una casa dove soffri le pene dell’inferno solo a trovare un punto dove far passare il tuo corpo e i tuoi pensieri, Dylan e Groucho battibeccano di gusto come nel fumetto con Vecchi che, nota negativa, sovrasta un po’ troppo il povero Valerio Di Benedetto il quale, c’è da dire, aveva veramente un compito improbo.
Troppo gnappo il suo Dylan (o troppo alto il Groucho di Vecchi), troppo romano nella dizione, troppo tenebroso il suo viso alla Scamarcio. Dylan piace molto alle donne perché è un fanciullo tormentato, sensibile e tremendamente femmineo (non a caso adora il manifesto della bisessualità The Rocky Horror Picture Show, il cui poster campeggia nel suo studio). Di Benedetto lo fa un po’ troppo virile e cavernoso. Ma ripetiamo: aveva il compito più arduo, se non impossibile, di sostituire nel nostro immaginario una grande star come Ruper Everett. Di Biagio/ Vecchi non eccellenti, quindi, nella relazione tra Dylan e la sua cliente Adele. E’ un po’ troppo brusco e mille volte più misogino questo Dylan qui rispetto all’originale del fumetto. Brutto il momento del sesso (così fuori campo che viene da chiederti se l’abbiano fatto oppure no) e freddissimo il nostro indagatore dell’incubo nell’incontro conclusivo. Dylan ci convince tantissimo, invece, quando entra in una libreria strafatto perché ha assunto la datura stramonium (splendida la scena con Bonetti da Safarà), quando riconosce le citazioni da Thomas Eliot o Meister Eckhart, quando senti che lui prova una sincera attrazione fisica per tutto questo mondo di oggetti da toccare, indagare e annusare in una Roma elegante che si bagna nel suo passato. Dylan ci convince di meno quando è nella contemporaneità di un’aula universitaria o si trova aggredito da due giovani amanti ignare l’una dell’altra con lui che sembra fregarsene. Il suo è un romanticismo infantile ma mai così anaffettivo come nel fan movie di Di Biagio / Vecchi.
La storia? E’ bella, semplice, dall’ottima chiusura. Parla di ritorni e metempsicosi. Parla di doppi in altre dimensioni proprio come il nostro Dylan Dog romanaccio e tracagnetto. Nonostante tutto gli abbiamo voluto un gran bene a Dylan soprattutto quando dice a Groucho: “Dopotutto… sono umano!”. Se il Bloch di Alessandro Haber (non si sorprende più di niente dal ’76 e non dal ’46 come nel fumetto) risulta poco pregnante, ci è piaciuta assai la Madame Trelkovsky di Milena Vukotic. Magnifica lei e, ripetiamo, magnifica anche la sua dimora opulenta abitata da automi. Di Biagio e Vecchi sono anche dissacranti. Possiamo anche prendere leggermente in giro ciò che amiamo e quindi ecco Dylan che, non visto da nessuno (anche da noi), si lancia nel riff iniziale di Sweet Child of Mine dei Guns N’Roses tradendo il suo amato clarinetto per una più garrula chitarra elettrica propostagli da quel provocatore di Groucho. Ragazzi: noi vogliamo vedere ancora questo Dylan Dog e siamo convinti che Di Benedetto ce la può fare, magari con una maggiore partecipazione da parte di Di Biagio e Vecchi, ad essere più dolce con le signore e meno maschiaccio che deve sempre fare il virile tenebroso. Questo fan movie è molto più bello di tanti brutti film italiani che vediamo di solito. È vero. Questa generazione di filmmaker ce la può fare. È vero. Ci hanno restituito il nostro Dylan Dog. Siamo fieri di loro. E li ringraziamo.
Di seguito l'intero mediometraggio di DYLAN DOG - VITTIMA DEGLI EVENTI, buona visione...
www.vittimadeglieventi.com
Fonte: http://www.badtaste.it/