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E allora puoi solo parlare della tua vita o di quella degli altri

Creato il 08 dicembre 2010 da Fabry2010

E allora puoi solo parlare della tua vita o di quella degli altri

Di Adelelmo Ruggieri

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Il tempo allevia agli uomini il dolore.

Terenzio

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Svariatissimi sono i modi di morire, eppure a tale impensabile varietà si oppongono un po’ di cose certe: una di loro, per esempio, è che a ognuno toccherà, si spera il più tardi possibile per ognuno, il proprio modo e solo quello. Per l’ipocondriaco non è così. Egli ha una specialità specialissima: in lui il sintomo produce panico, paura, tutto diventa abnorme, fuori norma, istantaneamente. È come un accrescersi e insieme un incrudirsi, fulminei, dei sensi, ma istantaneamente non si muore. Tranne che in certi casi, e solo quelli, morire non è mai istantaneo; c’è un processo, ci vuole il suo tempo. Anche per un centenario è così: la morte non lo coglierà che al termine di un processo.

Una delle 128 Cartoline dai morti (nottetempo, 2010) di Franco Arminio si occupa proprio del caso della quasi centenaria:

Avevo novantanove anni. I miei figli venivano alla casa di riposo solo per parlarmi della festa dei cento anni. A me la cosa non faceva nessun effetto. Io non li sentivo, sentivo solo la mia stanchezza. E volevo morire per non sentire più neanche quella. È successo sotto gli occhi della prima figlia. Mi stava dando uno spicchio di mela e mi parlava della torta col numero cento […]

La Cartolina non è ancora finita, la novantanovenne non è ancora deceduta, ma manca poco. Molto poco probabilmente. Intanto la figlia le sta dicendo della torta col numero cento. Le sta dando uno spicchio di mela, una piccola frazione di vita. Lei, la Quasi centenaria, magari la sta guardando, o guarda quello spicchio, sente che sta avvenendo qualcosa, sente che la sua vita sta terminando, ma non finirà subitissimo – istantaneamente.

[…] L’uno deve essere lungo quanto un bastone e gli zeri quanto le ruote di una bicicletta, stava dicendo.

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In coda alle 128 cartoline c’è una Nota dell’autore che dice:

Ho scritto queste cartoline dopo i piccoli attacchi di panico che continuano a visitarmi. Non sono più gli attacchi di una volta, quelli per cui cerchi qualcuno che ti accompagni all’ospedale e se non lo trovi ci vai da solo e quando ci arrivi ancora non ti è chiaro se stai morendo davvero o sei a un altro capitolo della tua penosa ipocondria. Ho provato a scrivere delle cartoline anche in altri momenti, ci ho provato un po’ di volte, ma ho buttato tutto. Erano simili alle altre, il disegno delle frasi era quello, ma la stoffa era asciutta, non era bagnata in quell’umore che ti viene dalla morte appena trascorsa. Allora puoi scrivere intorno a questa cosa che forse regge tutto, intorno a questo niente che sorregge e corrode ogni cosa. Lo sguardo del panico dilata i sensi, li fa grezzi, non hai tempo di raffinare, di romanzare. Dopo dieci, venti minuti sei di nuovo sul binario morto della calma o dell’agitazione usuale e allora puoi solo parlare della tua vita o di quella degli altri. I morti non ti pensano, non ti mandano nessuna cartolina.

Da questa nota appare quanto mai esplicito che una delle cifre più perspicue del libro è che non sono “i morti” a mandare queste 128 Cartoline, ma sono quei 128 io visitati dal panico, dallo sgomento. È il panico a fare “bagnata” “la stoffa” di queste frasi: “bagnata in quell’umore che ti viene dalla morte appena trascorsa”.

Nella quarta di copertina è scritto di questo libro come di un “resoconto ironico e fulminante dei tanti modi di morire”, e appena dopo di queste cartoline viene detto che ci sono inviate “da un posto sconosciuto”, e che con esse ci vengono spediti “un soffio impercettibile, una leggera pena, una vertigine, una sorpresa”. E tutto ciò si mostra per l’intero nel libro, ma quel “posto sconosciuto” non è tale: c’è sempre qualcuno che raccoglie quel soffio, quella pena, quella vertigine e quella sorpresa, e quel qualcuno è proprio “qui e subito dopo” – è questo “il posto”. E anche quando non c’è qualcuno o qualcosa, c’è magari ancora dell’altro a raccoglierli quel soffio e quella sorpresa. Nella più breve fra le cartoline, quasi necessariamente l’ultima, “Pure io, sì pure io”, il soffio sta come nell’articolarsi della stessa lingua – in quel “, sì”.

In un tempo che decreta, per lo più strumentalmente, nella autonomia e nella sicurezza del sé e nel rendimento i fattori del sé, il panico, il timore repentino, chiama a sé [convoca ed invoca] ben altro: “il bisogno di essere di”, la vicinanza e le vicinanze, la certezza degli affetti – il posto minuto e di breve durata che ci ha determinato e ci fa saldi. Nell’istantaneo del panico tutto questo lo si capisce; è vero, “non hai tempo di raffinare, di romanzare”, ma questa cosa qui, ciò che ti sottrae allo sgomento e ti mette in salvo di nuovo, la capisci in pieno. E anche di questa cosa ci dicono le Cartoline dai morti di Franco Arminio:Le mie sorelle stavano aiutando mia madre a vestirmi. Poi è arrivato mio padre. È venuto vicino e mentre mi guardava a me è venuta voglia di tornare viva e abbracciarlo solo per un momento.”
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