da qui
In genere, quando si inizia un romanzo, si è convinti di scrivere qualcosa di assolutamente originale, un’opera che passerà alla storia, si distinguerà dall’ammasso di carta quotidianamente riversato nelle bancarelle di mezzo mondo (la parte di mondo dove si ha tempo per leggere, e non si deve sgobbare venti ore al giorno per un pugno di riso, per esempio). Chi si accinge a riempire il foglio bianco o la parte di schermo destinata alla scrittura, poi, si dà arie da bohémien, circondato da una cifra imprecisata di tazzine vuote da caffè e/o mozziconi di sigarette accumulati in ogni angolo; ha un aspetto scapigliato e una finestra che dà su qualche scorcio di città particolarmente pittoresco. Basta affacciarsi, la sera, guardare le coppiette che si stringono con il gelato in mano, l’ubriacone che barcolla cercando di trascinarsi al bar, i bambini che s’inseguono passando sotto le gonne svolazzanti delle mamme (se esistono mamme giovani con gonne, nella civiltà dei jeans con squarci e patacche obbligatori), ed ecco che l’ispirazione arriva per miracolo. Si ritiene, in genere, che per scrivere un romanzo sia utile affittare (o, se si può, acquistare) un faro dove l’oceano percuota la scogliera, perché la schiuma, il vento sono ingredienti topici in contesti letterari. In realtà, è sufficiente un computer in una stanza di periferia affacciata su palazzi dozzinali senza alcun segno di riconoscimento, e una strada dove i clacson e le bestemmie s’inseguono privi di qualunque logica apparente. Insomma, nessuna notte buia e tempestosa, solo un torrido pomeriggio d’agosto dove un obiettivo ragionevole è sopravvivere alla pressione bassa e al caldo.