E chiamiamoli assassinii e basta

Creato il 25 giugno 2012 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Anche il mio pc è stanco di scrivere del susseguirsi di eventi commemorativi  e giornate della memoria. Ma nemmeno lui può esimersi dalla celebrazione odierna: la giornata di studio sulla sicurezza sul lavoro, “festa” nazionale in un Paese dove non c’è lavoro, ci sono sempre meno diritti e la sicurezza in compenso non c’è mai stata. Perfino Schifani che notoriamente non è un sindacalista selvaggio ha ammesso nel  ricordare che nel 2011 la media nazionale dei decessi sul lavoro ha conosciuto una flessione del 6,4%  che “ siamo in presenza di risultati non pienamente ottimistici visto che  preoccupa la consapevolezza che oltre il 15% delle vittime o lavorano senza in regolare contratto o risultano già collocati a riposo. Citando i dati Inail  ha ricordato che nel 2011 le morti bianche sono state 930: 40 in meno rispetto al 2010, «un dato obiettivamente non confortante, ancora meno se messo in correlazione alla diminuzione del livello di occupazione». Dal canto suo l’Osservatorio Indipendente morti sul lavoro di Bologna  smentisce l’Inail: che continua a fornire numeri molto riduttivi sulle vittime: “I numeri ufficiali dei decessi sono sottostimati del 25 per cento. E gli infortuni non denunciati sono almeno 250.000″. Non si muore meno sul lavoro semplicemente si lavora meno, o in nero.

A giugno le morti sul lavoro sono già 45, e tra l’otto e l’undici del mese sono morte 17 persone in quattro giorni:   a Brescia  10 decessi dall’inizio dell’anno, seguita da  Alessandria  nove morti nel 2012 nella sola provincia, mentre a Salerno si sarebbero contati  tre morti in otto giorni. Nel Lazio i morti sono 12. . In Puglia, è proprio il direttore regionale dell’Inail  a spiegare che il calo dei decessi va letto alla luce della diminuzione della forza lavoro.  Secondo i dati dell’ Osservatorio nel 2011 le vittime sono aumentate dell’11 per cento, un numero superiore a quello calcolato dall’Inail  che non conteggia i lavoratori non assicurati: agricoltori pensionati che muoiono sotto i trattori, militari, forze dell’ordine, pendolari, persone che si spostano per raggiungere il luogo lavoro.

I colpevoli degli assassinii sono i colpevoli della crisi e delle soluzioni che “adottano” per affrontarla, in un cerchio perversi. È colpevole la loro ideologia, gli strumenti messi in campo, i valori cui si ispirano, quella maledetta flessibilità che ben lungi dal produrre occupazione, determina invece incertezza, insicurezza, precarietà in una mutazione aberrante cui viene dato il nome di economia “informale”, informale per non dire casual, per non dire infame, per non dire primitiva, per non dire bestiale. Perché ci si riferisce ad essa per  definire l’attività economica svolta al di fuori di qualsiasi legge che regoli le attività produttiva, in assenza di diritti e protezione sociale, in condizioni fisiche e ambientali spesso mediocri o pessime. La si potrebbe chiamare illegale, o irregolare, ma più che trasgredire sta comodamente in un contesto in cui non esistono quadri giuridici o di controllo entro i quali si definiscono e agiscono il lavoro e la condizione di occupato.

In questi anni, la politica  economica Usa e i suoi devoti imitatori anche da noi, hanno perseguito questa giuliva e incontrollata formula “commerciale” delle relazioni industriali,  per la quale la   competitività si fonda  sul trasferimento delle produzioni, sulla delocalizzazione per sfruttare al meglio il livello bassissimo dei salari e l’assenza di tutele e protezioni. Andando in paesi dove il costo del lavoro è minimo allo scopo di massimizzare il rendimento dei profitti e di poter vendere a prezzi bassi i loro prodotti negli stessi paesi d’origine, estromettendo dal mercato la concorrenza che non ha de localizzato.

Hanno messo una pietra tombale così non solo sulle conquiste dei lavoratori ma anche della classe media, con strategie che non consistono solo in un spostamento delle produzioni o in mutamenti produttivi. Ma in un’aggressione diretta alle condizioni di lavoro e di vita di quelli che restano nel proprio paese: assieme alle lavorazioni evapora il lavoro, quello ben pagato e protetto dell’industria manifatturiera.

Ma si sa che l’avidità non si spegne, è inestinguibile. Quelle geografie non bastano più, sono aumentate le “pretese”: il governo americano si è stupito quando ha appreso con disappunto che nel Bangladesh è stata adottata una disposizione  che aumentava il salario minimo da 23° 36 centesimi di dollaro l’ora. Allora le nuove relazioni industriali secondo la teogonia neoliberista si sono fatte due conti, perché delocalizzare, spendere in trasferimenti, quando è possibile meridionalizzare e “terzo mondializzare” casa propria, trasformandola in una colonia penale dove il lavoro è ridotto a servitù, il salario a mancia  e i diritti a oggetto di cattiva memoria?

Così il lavoro “informale” si sta estendendo come un  contagio nei sistemi economici avanzati, introducendo precarietà, confermando irregolarità, affermando iniquità, aprendo la strada all’illegalità libera e trionfante.

È la nuova frontiera della lotta di classe dei padroni contro di noi, la realizzazione della loro antiutopia, la distopia di rendere il mondo un posto buio popolato di schiavi, a innalzare piramidi  e templi alla loro gloria. Non ci resta che abbattere i troni dei  faraoni.


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