“È con gli occhi che capisco”, Henri Cartier-Bresson

Creato il 07 gennaio 2015 da Leggere A Colori @leggereacolori

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Fianco a fianco al Mausoleo di Augusto, poche vetrate sotto la grandiosa Ara Pacis, all’interno dell’omonimo museo romano, potete ammirare fino al 25 Gennaio, una sequenza dai grandi numeri di fotografie del celebre Henri Cartier-Bresson. Provenienti dalla fondazione parigina a questi dedicata, le fotografie esposte osano, con rigore, documentare in maniera quanto più articolata possibile il prodigioso percorso dell’ideatore della agenzia Magnum e la sua robusta fame etica d’esistenza, storia e creatività. Dai primi passi fra i Surrealisti, fra le asperità della “Bellezza convulsa” di Breton, Henri sembra emergere raccogliendo l’eredità complessa di un mondo artistico in bilico composto, denso, fra stasi e movimento dell’essere. Il suo occhio vigile, terso, convoglia contemporaneamente, le linee articolate delle geometrie morali e monumentali di Cezanne. L’animo giovane di Cartier-Bresson si è nutrito dell’arte del proprio tempo in primo luogo, come egli stesso asserisce con lucidità emotiva: “Ho sempre avuto la passione per la pittura”.

Sedotto, durante i suoi primi passi nella camera oscura, dagli scatti Atget, Cartier-Bresson si avventura inizialmente fra le rigidità espressive degli oggetti umanizzati, così come il Picasso dei Papiers collés, per poi avventurarsi, successivamente, più consapevole, fra le frontiere tropicali del prossimo oriente spogliandolo di ogni eccesso esotico. Asciutto e sobrio, l’obiettivo di Henri matura lungo il tragitto espositivo romano odierno e individua con perseveranza la propria cifra creativa: spazi statici della pellicola, costantemente delle medesime misure, composti da inquadrature in bianco e nero, raccolte in una cortina ideale candida, in cui irrompono, con perseveranza dialettica, i sintomi più spontanei dell’esistenza. È presente a Roma la quasi complessità del curriculum fotografico di Cartier-Bresson: documentarista, inviato speciale, critico militante, cineasta in pectore dei ciak di Jean Renoir. Dalla Seconda Guerra Mondiale all’incoronazione di Giorgio VI, ai ritratti, fra cui Sartre e Capote, il portfolio di Cartier-Bresson coglie nell’esistenza la prospettiva antieroica della piccola grande umanità di tutti i giorni, scegliendo, in particolar modo, di tratteggiare le gradazioni di luce delle fiumane antropologiche spogliate di ogni vernacolo.

La sua rimane, dunque, la dimensione indagatrice della retina luminosa d’artista e il suo obiettivo fotografico ricalca il pennello e le ombreggiature della matita dello schizzo di quella che egli stesso definisce “scrittura corporea”. Eterno debitore dei grandi maestri dell’arte contemporanea, Henri ripercorre con devozione il realismo pregnante e sensoriale di Manet nel suo ciclo di immagini del 1936 dedicate al grande evento delle prime ferie retribuite in Francia: i piccoli panni femminili qui indossati fra le onde, assortiti alle mollezze delle pose virili distese sui prati durante una scampagnata, rimandano tenacemente al dipinto “Déjeuner sur l’herbe” oggi alla Gare d’Orsay. Henri non poteva non sapere che la scandalosa opera di Manet, suggerita da Tiziano, aveva sedotto Matisse e convinto Picasso e lui stesso.

Henri voleva, dunque, consegnare, al pari dei suoi contemporanei la sua produzione alla storia: i suoi scatti, fatto nuovo per un’arte che fino ad allora non era mai stata ritenuta pienamente tale, quelli della cronaca sociale ordinaria, che comprimevano le luci della gente comune, erano intimamente destinati alla monumentalità, alla solennità dei musei dalle origini. L’impeto di Henri Cartier-Bresson era, così, palesemente, di dar vita a pellicole capaci di dialogare con la modernità, la rinascenza e la classicità e di rappresentare, per esplicita vocazione, la piena eroicità dell’arte contemporanea, quella che oggi a Roma potrete rivedere nelle sale del Museo dell’Ara Pacis.

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