E’ così importante il ritrovamento della Corazzata Roma? Parere di Aldo Borghesi, storico

Creato il 29 giugno 2012 da Yellowflate @yellowflate

Di fronte al clamore suscitato dalla notizia del ritrovamente del relitto della Regia Nave Roma – lungamente cercato nelle acque del Golfo dell’Asinara e ora a quanto pare individuato e fotografato a 1200 metri di profondità – mi sembra utile riproporre, con pochissimi cambiamenti, un vecchio articolo che “La Nuova Sardegna” mi aveva richiesto per l’inserto in occasione della cerimonia in mare per il LX dell’affondamento (9 settembre 2003), cui aveva preso parte il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Il giornale lo aveva pubblicato qualche giorno dopo, con un titolo abbastanza incongruo. Alcuni passaggi sono evidentemente datati, ma a me pare ancora valida l’analisi dei fatti, delle loro ragioni, del significato che oggi dobbiamo trarne.

Significato che sintetizzo ulteriormente in una formula: l’affondamento della Roma è uno dei primissimi atti della Resistenza italiana, avvenuto quando ancora a Porta San Paolo non era stato sparato un colpo, quando a Cefalonia non si sapeva ancora bene che pesci pigliare, quando quelli dell’Italia Libera erano giù a Cuneo a cercare di capire se era possibile far qualcosa per evitare che i tedeschi si prendessero la città a man salva. Resistenza non voleva dire allora – ma non volle dire nemmeno più tardi - esclusivamente prendere le armi e salire in una formazione di montagna: questa è una visione storiografica irrimediabilmente datata, alla quale la ricerca ha affiancato, dando loro dignità, lo studio delle squadre cittadine, delle forme di resistenza non armata, dei diversi modi di collaborazione offerta ai combattenti, della Resistenza delle Forze Armate, di quella degli Internati Militari… Il 9 settembre 1943, per gli uomini della Regia Marina, Resistenza voleva dire scegliere di schierarsi con il governo legittimo, a costo di dover ottemperare alle gravose e dolorosissime clausole dell’armistizio, e soprattutto sottrarre armi e mezzi ai tedeschi: che è esattamente quello che fanno, pagandolo a carissimo prezzo. Ed avendo aperta davanti a sè la possibilità di scegliere in senso opposto: tanto è vero che a La Spezia, davanti alle acque da cui la Flotta da Battaglia prende rapidamente il largo, nella sua caserma il Capitano di Fregata Junio Valerio Borghese si preparava a passare alla collaborazione con i tedeschi, con quello strumento di morte che sarebbe diventata la Decima Flottiglia MAS.

L’affondamento della Roma è inoltre il principale evento della Resistenza avvenuto nell’ambito territoriale della Sardegna. Tanto è vero che il monumento alla corazzata a Porto Torres è diventato un luogo in cui si ricorda ogni anno il 25 aprile. Ci tengo a ricordarlo (nell’articolo vi accenno verso la fine), perchè l’iniziativa in questo senso, prima di essere fatta propria dalle Istituzioni, è stata presa da associazioni culturali di cui ho fatto parte, in un tempo in cui (una diecina di anni fa) non solo la memoria della Roma a Porto Torres era del tutto sepolta, ma il monumento stesso versava in condizioni piuttosto poco onorevoli. A La Maddalena ogni 9 settembre i Caduti della Roma, del Da Noli e del Vivaldi vengono ricordati con una sobria e suggestiva cerimonia in mare, ed è raro che il Comandante di Marisardegna, sempre presente, nel suo discorso ometta di ricordare e rivendicare il significato di atto di resistenza che il sacrificio di questi uomini assume.

In questi giorni le agenzie e i giornali riportano con evidenza la notizia dell’ormai certo ritrovamente del relitto, cercato per decenni in una zona di mare dove si trova una sorta di canyon che costituisce il prolungamento della fossa del Coghinas. Non capisco davvero quale entusiasmo possa suscitare una notizia del genere, fuori dall’ambiente dei tecnici che avranno finalmente modo di studiare sul posto le modalità dell’affondamento. Al di fuori di questo, personalmente non trovo motivi di entusiasmo. Qualcuno dice che può servire a ravvivare il ricordo dell’accaduto e dei Caduti. Ne dubito. Dubito che 42.000 tonnellate d’acciaio su oltre 1.000 metri di fondale, praticamente impossibili da raggiungere se non con mezzi straordinariamente complessi e costosi, possano tenere viva una memoria che richiederebbe (e avrebbe già da tempo richiesto) ben altro tipo di interventi, di natura cuturale.

Temo invece che quel che realmente si vuole sia scatenare la caccia al cimelio e alla ricerca di sensazioni forti per pochi privilegiati, in puro stile Titanic. Qualcuno parla di “recupero” e di “degna sepoltura”…. forse dimenticando che stiamo parlando di una massa di materiale di poco inferiore a quella di un grande traghetto odierno; ma soprattutto che la tomba del Marinaio Caduto è la sua nave, o l’immensità del mare, regola conivisa da tutte le marinerie. Ricordo che in un’occasione analoga – l’individuazione del relitto del sommergibile Sciré, davanti al porto di Haifa nel 1984 – si era scatenata una polemica sull’ipotesi di recupero delle salme (su un fondale inferiroe a 50 metri) in cui fra le voci più nettamente contrarie erano state quelle di molti familiari dei Caduti, che avevano chiesto con forza che le Loro spoglie venissero lasciate colà dove erano..

Familiari dei Caduti come quelli della Roma, presenti ancora in gran numero alla cerimonia in mare il 9 settembre 2003: una presenza discreta, dignitosa, fatta di gesti misurati, di lacrime nascoste a stento, di foto di ragazzi in divisa giovani e giovanissimi, talvolta coetanei delle persone ormai anziane che le mostravano senza mai ostentarle. Quei familiari, soprattutto sardi, che ogni anno a La Maddalena salgono sulla piccola unità messa a disposizione dall Marina Militare per arrivare a  lanciare la corona d’alloro nel mare di Santo Stefano, davanti alla colonna rostrata che ricorda le tre navi affondate, per rinnovare una memoria e soprattutto un dolore mai del tutto elaborato nelle famiglie in cui uno dei cari è scomparso in guerra. Non credo che maggiore oltraggio possa essere fatto alla memoria dei ragazzi che hanno riposato per quasi settant’anni sul fondo del Golfo, ed a chi è legato alla Loro memoria, che rendere il luogo del loro martirio e della loro sepoltura qualcosa di minimamente diverso da una sede di memoria e di studio.

Davanti al Golfo dell’Asinara, alle acque sotto cui si trova la “Roma”,  personalmente ci abito, da vent’anni esatti a oggi. Per guardarmele  basta che mi affacci al balcone della mia camera. Le ho viste agitate dai fortunali di maestrale che tirano spesso da queste parti, dal mare grosso di levante che scende dalle Bocche, piatte a perdita d’occhio nelle serate di anticiclone, come oggi; ne vedo l’azzurro sterminato in tutte le belle giornate che nel corso dell’anno si susseguono frequenti da queste parti. Non c’è praticamente giorno in cui, aprendo la finestra, abbia trascurato di ricordare anche solo per un momento le centinaia e centinaia di vite spente laggiù, in quel modo e per quel motivo. Forse a scriverne mi legittima più questo, che l’essermene occupato come studioso. Non sapevo il punto preciso in cui si trovavano, lo so forse appena di più oggi, non mi interessa gran che. Domattina aprirò la finestra e guarderò verso Nord come tutti i giorni, Loro sono lì, e basta questo.

Ad ogni tentativo di fare in qualche modo mercato di quella memoria, ritengo sia mio dovere opporsi: e questo farò fino al punto in cui mi sarà possibile. E questo spero facciano le Istituzioni, gli Enti, gli istituti e le associazioni di cultura, tutti coloro che amano quelle due cose immense che sono il materiale di questa storia è intessuta: il mare e la libertà.

L’Italia verso la democrazia

“La Nuova Sardegna”, 11 settembre 2003.

Qualcuno – in Sardegna e fuori – forse si stupirà di nel vedere l’isola fra le poche località toccate dal Presidente della Repubblica durante le manifestazioni nel LX anniversario dell’8 settembre e dell’inizio della lotta di Liberazione. È luogo comune diffuso, infatti, che la Sardegna nulla abbia avuto a che vedere con quei fatti, e con l’armistizio la guerra vi sia terminata in modo incruento; qualcuno ne trae motivo di compiacimento, come se veramente da allora la Sardegna fosse rimasta estranea alla tragedia e ai lutti della guerra. Se davvero così fosse, perché fra i tanti luoghi che videro il dramma delle Forze armate, l’inizio sanguinoso dell’occupazione tedesca e le prime azioni della Resistenza, il Capo dello Stato avrebbe scelto di dare rilievo con la sua presenza proprio a quanto è accaduto sul mare prospiciente la Sardegna, nel golfo dell’Asinara ? È qui che si svolse uno degli episodi più dolorosi fra quanti furono diretta conseguenza dell’armistizio, ma allo stesso tempo più ricco di rilevanza simbolica nel cammino di rinnovamento che l’Italia intraprese in quei giorni cupi.

Anzitutto i fatti: è ben noto il modo in cui l’Italia mise fine nel settembre 1943 all’avventura della guerra fascista.

All’indomani del 25 luglio le truppe tedesche avevano rafforzato la presenza nella penisola e nelle zone di occupazione, preparandosi ad assumerne il controllo. La consapevolezza delle loro intenzioni ostili, la scarsa determinazione circa i comportamenti dopo l’armistizio e la conseguente assenza di un piano operativo, fecero sì che la pubblicazione del testo armistiziale provocasse la dissoluzione nell’apparato militare e statale italiano. La famiglia reale e il governo abbandonarono precipitosamente Roma, senza impartire ordini chiari sul da farsi; di conseguenza le forze armate finirono quasi tutte per sbandarsi: molti militari riuscirono a raggiungere casa, altri si nascosero e aderiranno in buona parte alla Resistenza, altri ancora, catturati, affronteranno da Internati Militari Italiani (IMI) una prigionia assai dura nell’Est e in Germania, cui solo una minoranza si sottrarrà con l’adesione alla RSI.

In questo drammatico frangente, la Regia Marina “tiene” senza significativi sbandamenti: l’armistizio prescrive la consegna del naviglio da guerra agli Alleati, ma Badoglio fino all’ultimo tace questa condizione persino al ministro Raffaele De Courten. De Courten trasmette anzi – la mattina del 7 settembre -  all’ammiraglio Carlo Bergamini, da qualche mese comandante della squadra da battaglia dislocata a La Spezia, l’ordine di contrastare lo sbarco di Salerno. Dell’armistizio ormai concluso i membri del governo vengono informati solo l’8, poco prima che la radio italiana diffonda la notizia. La preoccupazione immediata è sottrarre la flotta alla cattura da parte tedesca: il ministro ordina a Bergamini di condurre la flotta a La Maddalena; l’ammiraglio gli fa presente che i suoi uomini – pronti a salpare contro gli Alleati, ed ora sconcertati di fronte al repentino capovolgimento della situazione – sono unanimemente orientati verso l’autoaffondamento. De Courten gli chiede di accettare le dure condizioni dell’armistizio in nome del bene del Paese, per alleviare la posizione dell’Italia di fronte ai vincitori, e gli assicura che a La Maddalena, base italiana, le navi non avrebbero dovuto ammainare la propria bandiera.

Bergamini, in un’arma come la Marina che passava per essere la meno legata al Regime, era considerato uno dei comandanti più filofascisti. Lo storico navale Giorgio Giorgerini scrive di lui: “ligio al dovere non si era mai immischiato in faccende o amicizie politiche, ma aveva sempre dimostrato grande ammirazione per Mussolini e fede nel fascismo, fu convinto assertore della guerra contro la Gran Bretagna…” e ipotizza persino un ministro preoccupato circa la possibilità che il comandante della squadra rifiutasse di ottemperare. Ma di fronte alla scelta cui viene posto, come gli altri soldati italiani in quei giorni, sono altri i valori che nell’ammiraglio prevalgono.

Nella notte la Squadra da battaglia esce da La Spezia, all’alba procede ad oltre venti nodi oltre Capo Corso: un imponente schieramento con le tre corazzate RomaVittorio Veneto e Italia (ex Littorio), gli incrociatori Eugenio di SavoiaMontecuccoliRegoloGaribaldiDuca D’Aosta e Duca degli Abruzzi, otto cacciatorpediniere e cinque torpediniere. Bergamini è sulla Roma, la più moderna unità della Regia Marina, varata nel 1940, completata a costo di grandi difficoltà materiali ed entrata in squadra nel 1942; oltre 40.000 tonnellate di dislocamento, lunga 240 metri, oltre 1.900 uomini d’equipaggio. A mezzogiorno la flotta disposta in linea di fila inizia l’attraversamento degli sbarramenti di reti e campi minati nelle Bocche di Bonifacio.

La base navale della Maddalena era all’epoca una delle più munite d’Italia; le fortificazioni,  ancora oggi in piedi, ospitavano cospicue artiglierie navali e contraeree, malgrado i bombardamenti aerei in rada della primavera avessero messo fuori combattimento gli incrociatori pesanti Trieste e Gorizia. Per la sua sicurezza era stata scelta durante i 45 giorni per ospitarvi Benito Mussolini – prigioniero eccellente da poco trasferito al Gran Sasso – ed il governo aveva in un primo momento deciso di trasferirvi dopo l’armistizio, oltre alla flotta, i Reali, comunicandolo la mattina dell’8 settembre al comandante, ammiraglio Bruno Brivonesi.

Le cose vanno in ben altro modo. All’annuncio dell’armistizio il generale Antonio Basso, comandante militare della Sardegna, aveva raggiunto con un accordo con il comandante tedesco Lungerhausen, cui consentiva l’evacuazione indisturbata dell’isola. I tedeschi avevano iniziato a ritirarsi verso i porti galluresi: 30.000 uomini, in gran parte della 90. divisione granatieri corazzata. Malgrado Basso disponesse di forze nettamente superiori – tra cui la divisione paracadutisti Nembo – non avrebbe opposto resistenza; per l’isola questo ha significato, certo, l’essere risparmiata dall’occupazione, ma non sembra che in Sardegna siano in molti a considerare che, passate le Bocche, le forze tedesche non si dissolsero nel nulla. Quel poderoso strumento bellico che era la 90. divisione, pur avendo subito perdite in Corsica e nella traversata verso la penisola, verrà schierato sul fronte di Cassino, poi nella Toscana centrale (dove nell’estate 1944 fermerà per dieci giorni davanti a Volterra gli Alleati in marcia verso l’Arno), nei rastrellamenti antipartigiani in Piemonte ( in valle Stura viene fermata per diversi giorni da meno di 700 partigiani male armati: assai meno dei soldati italiani di stanza in Sardegna), in Romagna ed infine, nell’aprile 1945, nel Cuneese, contribuendo in misura notevole a prolungare la durata della guerra sul fronte italiano. 

   Condizione essenziale per la sicurezza della ritirata tedesca è il controllo dell’arcipelago maddalenino: un commando sbarcato sull’isola si presenta il 9 settembre all’Ammiragliato, mentre gli ufficiali sono a pranzo, e li prende prigionieri senza colpo ferire; i tedeschi sono una sessantina, i militari italiani della base parecchie migliaia. L’ammiraglio Brivonesi sa bene che a La Maddalena si sta dirigendo in cerca di scampo la squadra navale, ma sceglie di obbedire agli ordini del gen.Basso e lasciare che i tedeschi passino, adoperandosi inoltre per far cessare la reazione armata che contro di loro suscitano alcuni ufficiali subalterni e marinai. I combattimenti della Maddalena provocano 24 morti italiani – tra cui gli ufficiali medaglie d’oro Avegno e Veronesi – ma non possono ormai ribaltare una situazione che avrà conseguenze esiziali per il destino della Roma.

   Con La Maddalena in mano tedesca, poco dopo le 13 la flotta riceve l’ordine di dirigere sul porto algerino di Bona; ormai nelle acque delle Bocche, Bergamini inverte la rotta. Qualche ora più tardi, i bombardieri tedeschi trovano la flotta non sotto l’agguerrita difesa delle artiglierie della base, ma in pieno golfo dell’Asinara e priva di copertura aerea. Dopo un primo attacco, alle 15.50 un gruppo di bimotori Dornier 217 sgancia sulle navi italiane alcune bombe con motore a razzo, precise e micidiali. L’Italia viene colpita; la Roma incassa due bombe che provocano esplosioni a catena e incendi. Nelle immagini e nel vivido ricordo dei superstiti campeggia l’impressionante scenario della Roma squarciata e devastata: la nave sbanda sulla dritta, si capovolge, si spezza in due tronconi che colano a picco. Tutto si è svolto in poco più di venti minuti, pressappoco a diciotto miglia da Cala d’Oliva e da Castelsardo (posizione ufficiale; 41°08’N 08°09’ E). Su un fondale di diverse centinaia di metri riposano 1350 dei 1948 uomini imbarcati sulla Roma;  con loro, anche Carlo Bergamini.

Poco lontano, si consuma il sacrificio di due piccole unità. I cacciatorpediniere Da Noli Vivaldi, che da Civitavecchia ricevono l’ordine di riunirsi alla squadra navale affondando i mezzi tedeschi nelle Bocche, quelli cui dalla Sardegna era stata data via libera; il Da Noli salta su una mina, il Vivaldi si inabissa al largo dell’Asinara: su oltre 500 uomini meno di metà si salva, e molti vagano in mare per giorni prima della salvezza. Alcune navi sottili imbarcano i naufraghi della Roma, circa seicento, e dirigono sulle Baleari, dove vengono internate a Port Mahon. Qui scrive una grande pagina di solidarietà Fortuna Novella: carlofortina, unica italiana residente a Mahon, ella si prodiga nell’assistenza ai marinai e per mesi fa loro da madre: nel paese d’origine le è stata intitolata una calata del porto e nel portale www.carloforte.it si può leggere la sua bella storia.

   La flotta italiana prosegue frattanto la sua rotta verso l’Algeria e successivamente per Malta: la mattina dell’11, scortata dalle navi da battaglia inglesi di cui era stata valorosa nemica, le bandiere al vento ma innalzati i segnali di resa, è davanti La Valletta. La attende un cammino doloroso; ma non è caduta in mano ai tedeschi, che al proprio fianco avranno per lo più i marò della Decima MAS, valorosi combattenti ad Anzio ma impiegati anche nella lotta antipartigiana, nella quale scrivono diverse pagine non proprio onorevoli. Verranno poi la cobelligeranza, la cessione di unità con il trattato di pace del 1947, un difficile dopoguerra; con la scelta del 9 settembre la Marina italiana ha tuttavia ricominciato a scrivere la propria storia di Forza Armata in un paese libero.

L’affondamento della Roma, per le circostanze in cui è avvenuto e il grande numero di vittime, ha sempre esercitato una profonda impressione nel paese: l’elenco dei Caduti (pagine di scarni quanto impressionanti dati anagrafici) vede rappresentata ogni regione d’Italia; la Sardegna vi figura con una quarantina di nomi. Due ufficiali, molti sottufficiali, parecchi marò: cagliaritani, carlofortini, maddalenini per lo più. Talvolta ragazzi: uno di loro festeggiava, quel 9 settembre, i suoi ventitrè anni; un altro ne avrebbe compiuti venti il giorno dopo.

Gli anziani di Portotorres ricordano l’altissima colonna di fumo nero levatasi a segnalare il disastro. Nel 1993 per iniziativa dell’Associazione Marinai, della Lega Navale Italiana e dell’Amministrazione comunale è stato realizzato un ricordo monumentale ai Caduti della corazzata, che si aggiunge agli altri di Santo Stefano e di Port Mahon: il 25 aprile, da un paio d’anni ci si raduna lì per un omaggio, perchè quella è una delle poche “pietre della libertà” in Sardegna. All’inaugurazione, il comandante di Marisardegna rivendicò con forza il carattere di momento fondante della Resistenza italiana che la vicenda dellaRoma assume: il rifiuto di arrendersi ai tedeschi e collaborare con essi è la scelta che senza dubbio accomuna tutti i resistenti, al di là del movente che questa scelta ispirò. Gli uomini della Roma non erano i partigiani che solo pochi giorni dopo avrebbero cominciato a salire in montagna; non lo erano i soldati della divisione Acqui massacrati a Cefalonia; nè quelli che nell’isola greca di Leros avrebbero tenuto testa ai tedeschi fino a novembre; nè i seicentomila IMI fermi nel rifiutare il collaborazionismo anche davanti a freddo e fame. Ma a tutti è comune la matrice della scelta: opporsi alla macchina bellica del nazifascismo. Ed è stata, la loro, la scelta che ha consentito la nascita di un’Italia libera; tutti i destini umani nella tragedia bellica meritano un assorto rispetto: ma la scelta della quale essere grati, da portare ad esempio a generazioni che vogliano vivere in un mondo libero e senza guerre è questa. Ed è questo che il Presidente Ciampi viene a ricordare e a ribadire martedì 9.

Nella memoria delle famiglie, di quelle giovinezze spezzate sono rimasti ricordi, ormai di vecchi, e foto ingiallite di ragazzi che sembrano scattate sul set di Poveri ma belli. Non si è perso, in chi li ha conosciuti e in chi, più giovane, se li è sentiti raccontare in famiglia, il senso dell’infinita ingiustizia della guerra. La loro scomparsa è una ferita che ancora duole. Forse, dai fondali dell’Asinara, anche le centinaia di ragazzi della Roma ci chiedono quel che in una sua poesia Primo Levi attribuiva ad un giovane partigiano morto: “Che questa mia pace duri, / Che perenni su me s’avvicendino il caldo ed il gelo, / Senza che nuovo sangue, filtrato attraverso le zolle, / Penetri fino a me col suo calore funesto / Destando a nuova doglia quest’ossa oramai fatte pietra”.

Aldo Borghesi


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