E così, una bella sera di febbraio ci ritrovammo improvvisamente negli anni '90…

Creato il 27 febbraio 2015 da Redatagli

Così potrebbe riassumersi questa due settimane di coppe europee che ha visto le 5 squadre italiane di Europa League superare l’ostacolo dei sedicesimi di finale – sì, la strada è ancora lunga – e la Juventus vincere in casa l’andata degli ottavi di finale di CL contro il Borussia Dortmund, finalista due anni ma quest’anno in piena lotta per la (non) retrocessione.

È forse presto per cantare vittoria, anche perché la Juve tutto sommato ha sofferto e sprecato molto nel suo match casalingo e il 2-1 finale non la mette al riparo dal rischio eliminazione.
Ed è anche vero che, mentre le nostre squadre avanzano fieramente nelle competizioni europee, da noi imperversa il caso-barzelletta Parma – una società con un buco di 196 milioni di Euro di cui nessuno si era accorto e un presidente, tal Manenti, che a quanto pare gioca a nascondino con le istituzioni pallonare e non, evitando di presentarsi a tutti gli appuntamenti a cui la sua presenza sarebbe caldamente richiesta, e di cui non si comprendono le motivazioni che lo hanno spinto a imbarcarsi in una missione così disperata dato che pare non disponga di… grande liquidità – e si preferisce sorvolare sull’affaire Lotito; tuttavia sembra che qualcosa, a livello di calcio giocato, stia effettivamente cambiando.

Incominciamo dai numeri: erano anni… Anzi, no, pardon, non è vero: mai 5 squadre italiane erano giunte a questa fase della seconda competizione continentale, neanche nei gloriosi anni Novanta dove Juve, Inter, Parma e Lazio (all’epoca esisteva ancora la Coppa delle Coppe) vi collezionavano vittorie in serie.
L’anno scorso portammo tre squadre agli ottavi, ma il derby Fiorentina-Juve dimezzò il nostro plotone, e con la sconfitta del Napoli ci ritrovammo con soltanto la Vecchia Signora ai quarti, ma non fu la stagione peggiore: nel 2009-2010 nessuna italiana superò gli ottavi di finale.

Raccontare il perché del declino che di uno sport come il calcio, che in Italia continua a essere di gran lunga lo sport più praticato e seguito, significa descrivere la storia di una nazione che si è seduta sugli allori, e di una generazione, quella nata tra la metà degli anni Sessanta e la fine dei Settanta, che ha saputo sì imporsi precocemente (nei club e con la Nazionale) ma non ha lasciato spazio a quella successiva.
Non è un caso se rimpiangiamo ancora oggi Baresi, Maldini, Cannavaro, Nesta, i Baggio (Dino e Roberto), Del Piero, Inzaghi e se Totti è ancora il centravanti titolare della Roma.
Forse si è trattato di atleti eccezionali e di una generazione irripetibile, o forse erano i ragazzi dei primi anni Ottanta a non avere la qualità necessaria, o forse è tutta una questione di attitudine, di voglia d’emergere, di conquistarsi il proprio spazio al sole.
Fatto sta che nessuno di quelli che oggi si trova tra i 30 e i 34-35 anni entrerà probabilmente nella Hall of Fame del nostro calcio.

La parabola sportiva italiana assomiglia in qualche modo a quella politica: gli uomini che lo hanno condotto sul tetto del mondo lo hanno fatto producendo un debito che oggi si traduce in un gap (tecnico, di cultura sportiva e manageriale, a livello di strutture) che non siamo stati capaci di colmare per più di un decennio e che ancora oggi ci zavorra.

(A lato, foto di Sudafrica 2010, ovvero "Quando la gratitudine è dannosa")

La salute di un movimento calcistico si osserva dalla quantità media più che dalle sue eccellenze: i nostri modelli (il calcio spagnolo, tedesco e inglese) sono tali perché sono stati in grado di elevare la loro qualità media in modo da risultare competitivi nelle coppe europee.
Significa che, in Spagna, oltre al duopolio Real Madrid-Barcelona, si sono affermate realtà come Atletico Madrid e Siviglia (più volte vincitrici della Coppa Uefa/Europa League negli ultimi 10 anni), che in Germania Borussia Dortmund e, alternativamente, Werder Brema, Wolfsburg, Bayer Leverkusen e Schalke si sono affiancate al colosso Bayern, e che in Inghilterra il predominio United dei primi anni 2000 ha lasciato spazio a una nutrita compagine di club in grado di giocarsela quasi alla pari con le big europee.

Avere quindi 5 squadre al sorteggio degli ottavi di finale è un piccolo, parziale successo, in cui, però, vanno fatti dei distinguo. Per il Torino di Ventura si tratta, se non di vero miracolo, di un risultato fortemente inaspettato, soprattutto se ricordiamo cosa si diceva dei granata fino a un paio di mesi fa.
L’addio alla coppia Immobile-Cerci aveva lasciato un segno che sembrava incancellabile, e i loro sostituti non parevano all’altezza. Ventura, allenatore che, non mi stancherò di ripeterlo, considero uno dei migliori del panorama italiano, ha lavorato molto sulla squadra, impostandola con un 3-5-2 in grado di proporre solidità difensiva e offensiva.
La vittoria a Bilbao è il capolavoro della sua gestione. Non gli si può chiedere altro, ma lo Zenit non gli è pregiudizialmente superiore.

Per l’Inter e la Fiorentina, l’approdo agli ottavi si tratta di un risultato da minimo indispensabile. La società milanese ha una rosa in grado di arrivare fino alla finale, e lo stesso si può dire della Fiorentina.
L’Inter, come ormai le riconoscono i suoi avversari, propone un calcio poco italiano, più propenso a offendere che a difendere, e questo le sarà d’aiuto nella campagna europea.
L’acquisto di Shaqiri, Santon e Brozovic, il prestito di Podolski e l’esplosione di Icardi (e c’è ancora Kovacic) mette in mostra un fenomeno poco italiano: la fiducia ai giovani e/o un appeal che il calcio italiano italiano sta lentamente riconquistandosi nel panorama internazionale: Podolski sarà in fase calante, ma è un 29enne laureatosi campione del mondo pochi mesi fa, mentre Shaqiri è un calciatore di 23 anni ceduto – non scartato – dal Bayern Monaco per via della troppa concorrenza e che ha scelto di rigenerarsi calcisticamente in Italia.
Ottimo segno. L’Inter affronterà il Wolfsburg, attualmente secondo in Bundesliga. Match duro, ma si può fare.

La Fiorentina sembra costantemente a metà del guado: la rosa è buona ma non buonissima, Salah da noi (e forse non solo) fa la differenza, Gomez sembra essersi svegliato dal letargo, Babacar è un giovane di ottime speranze (e occhio al rinnovo, va in scadenza a giugno 2016).
E poi c’è la solita qualità in mezzo al campo: Pizarro, Mati Fernandez, Aquilani. Se non è abbastanza per vincere, lo è almeno per provarci.
I dubbi rimangono sull’atteggiamento, quello sì tipicamente italiano e troppo passivo, con cui i toscani hanno affrontato i due match contro il Tottenham: non è un caso se Tatarusanu all’andata e Neto al ritorno sono stati tra i migliori in campo.
Il 3-5-2 di White Hart Lane è inadeguato ai ritmi europei, anche perché la Fiorentina non ha quel tipo di gioco arrembante, fatto di pressing e ripartenze, che serve per mettere in difficoltà gli avversari se ti schieri in questo modo (volete un esempio? il Napoli di Mazzarri e la Juve di Conte, entrambe contro il Chelsea).
In campionato la Fiorentina basa il proprio gioco sul possesso, mentre contro gli inglesi è stata messa sotto su questo aspetto, e ne è venuta fuori una partita di sofferenza, tenacia e rincorsa.
Questa volta è andata bene, ma forse Montella dovrà rivedere qualcosa; il derby contro la Roma in questo senso potrebbe vederla favorita.

Per Roma e Napoli il discorso è più complesso. La caratura delle loro rose farebbe pensare alla loro campagna europea come a un fallimento, e in parte è così. Riflettendoci sopra, però, viene da pensare che, pur mostrando in certe circostanze un gioco spumeggiante, divertente ed europeo, né una né l’altra dispongono di ciò che serve a primeggiare in Europa: costanza, forza fisica e qualità in ogni settore del campo.
La Roma che ha faticato con gli olandesi del Feyenoord non è la vera Roma, ma a questo punto della stagione è lecito chiedersi se la rivedremo mai, e nel derby contro la Fiore non parte davanti.
Il Napoli ha fatto un sol boccone di una squadra turca che non era né il Gala né il Besiktas, e questo basta per dire che il test non era attendibile; lo stesso varrà per la Dinamo Mosca, l’avversario degli ottavi.

Se in forma e in fiducia, sono però entrambe manifesto del rinascimento calcistico italiano. La Roma, con le sue fionde lì davanti, è (sarebbe) in grado di coniugare qualità, possesso e rapidità; il Napoli, in giornata sì, sa giocare di pugna – pressing aggressivo in tutte le zone del campo – e di fioretto con ripartenze eleganti e velocissime.
Non siamo (ancora) ai fasti del Milan sacchiano o ancelottiano né della Juve di Lippi, ma sono comunque le due realtà più significative (insieme alla Juve) del calcio nostrano per gioco, qualità e competitività.

La Juve, in un certo senso, ricorda un po’ la Fiorentina, lì, a metà del guado. Partiamo da una considerazione: vincere 2-1 in casa contro il Borussia Dortmund odierno – una squadra che fino a 3 settimane fa era, per vari motivi, ultima nel proprio campionato – non è un grande risultato; lo è, semmai, riuscire a farlo passare come tale.
Ricordiamo che con una sconfitta per 1-0 in Germania, i torinesi sono fuori.

Il 4-3-1-2 di Allegri interpreta un calcio europeo, mobile e capace di portare un maggior numero di uomini in fase offensiva. La libertà di movimento delle due punte è, rispetto alla rigidità degli schemi contiani, un passo in avanti, così come lo è la difesa a 4, che consente una maggior protezione contro gli attacchi che fanno delle fasce terra di conquista.
Resta però l’impressione che si potrebbe fare di più, a livello di gioco, già con questi giocatori: Pirlo resta un giocatore straordinario, ma non è un caso se la squadra ha smesso di subire il pressing tedesco dopo il suo infortunio. E Vidal trequartista fa soltanto casino – non saprei come meglio definire la sua imprecisione tecnica nel passaggio, nella chiusura dell’uno-due o nell’assist di fino: come dire, si applica ma non rende.
In fin dei conti, però, la Juve ha vinto contro i tedeschi e nel secondo tempo, non rischiando nulla, con un po’ di fortuna in più poteva dilagare. Il classico bicchiere mezzo pieno mezzo vuoto, verrebbe da dire.

Ma è davvero Rinascimento, quindi? A 7 mesi dal disastro brasiliano, pare proprio che qualcosa di nuovo si muova. Tralasciando le big e le squadre impegnate in Europa, il Genoa, la Sampdoria, l’Empoli, Sassuolo e il Palermo si sono segnalate, ancor prima che per i risultati, per l’idea di gioco messa in campo: corsa (in avanti), pressing, movimenti senza palla, forzature degli uno-contro-uno (in Italia per anni c’è stata una moria di dribbling incredibile) e in qualche caso è sopraggiunta anche una certa qualità.
Non è un caso che stia emergendo nel nostro campionato per la prima volta, dopo anni di magra, una generazione, di italiani e stranieri, competitiva a livello europeo: è ancora presto per dirlo, ma la rottamazione è forse incominciata. 

Maurizio Riguzzi
@twitTagli 


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