E allora ben venga "l'incompetenza" di un Vittorio Zucconi, che forse non conoscerà la differenza fra un "kick" e un "top-spin", ma conosce come le sue tasche l'humus degli italiani e degli americani, e forse per questo è riuscito a dare il miglior acquerello di cosa sia davvero accaduto a New York in questi giorni.
Tafanus
È stato il trionfo delle "Little Italians" in quello US Open meno sussiegoso, meno snob, ma più brutale e schietto di Wimbledon, dei suoi nobili cappellini e delle sue fragole con panna. Disputato in uno stadio da 26 mila persone tra un tifo da Derby.
Le due tenniste pugliesi, figlie di quel Meridione che nella letteratura, e spesso nella realtà, è sempre raccontato come "Questione" e mai come una "Risposta", hanno risposto alla incredulità dei 20 milioni di americani che praticano il tennis, hanno ridicolizzato gli autori del tabellone eliminando la testa di serie numero due, con Pennetta, e la numero uno del torneo e del mondo, quella extraterrestre chiamata Serena Williams, che anche il più cauto dei bookmaker dava favorita per 300 a uno, demolendo la "robotennista" per rivelare sotto tutti quei muscoli una donna vulnerabile e nervosa, umana.
Le due "Little Italians", finalmente uscite dagli ormai insopportabili e fetidi stereotipi delle "Little Italy" che neppure esistono più, hanno zittito il plotone di sacerdotesse del tennis femminile americano, Evert, Shriver, Mary Joe Fernández, che dallo studio della ESPN sono passate dalla noiosa fatica iniziale di raccontare quella che sembrava un'esibizione di tennis fra una maestra e un'allieva, al dramma di non trovare nel loro vocabolario parole per raccontare l'impossibile. E spiegare la sfacciataggine di quelle due che avevano osato fare irruzione nel loro salotto e rompere il servizio buono.
Ancora negli ultimi due giochi del terzo set, dopo il break di servizio e le prime palle-partita in favore di Roberta Vinci, il telecronista della diretta, Mike Tirico, disperatamente ripeteva che Serena Williams era stata capace di rimontare in passato, che non era mai morta, che... gioco, partita, incontro per Vinci.
E catastrofe per le attese di rating tv per il network Espn e per i bagarini, costretti ad abbassare i prezzi per la finale da 1.500 a 300 dollari. Bastava osservare l'espressione attonita e contratta di Billy Jean King, la grandissima che per prima infranse la barriera sessista attorno al tennis femminile, per leggere lo sbigottimento degli esperti e la costernazione di chi ruota attorno all'ormai enorme business di un tennis che non aveva previsto, e non potrebbe reggere, il crollo delle divinità e il successo delle figlie di dei molto minori come le due italiane. E pazienza se abbiamo deluso i 26 mila dello stadio Arthur Ashe, se abbiamo interrotto la marcia del panzer Williams a colpi di stuzzicadenti, se abbiamo fatto venire il magone anche a Michelle Obama, costretta a un tweet di solidarietà, «sono orgogliosa di te», alla "sister", alla Serena sconfitta.
Solo noi masochisti italiani che seguiamo lo sport internazionale potevamo capire, e potevamo osare, quello che a un'altra divina del passato, Chris Evert, risultava incomprensibile e sgradevole. Vinci sta mettendo in difficoltà Serena con tutto quel suo "slice and dice", sibilava sprezzante Chris, con tutto quel suo "tagliare e affettare" i colpi, un po' da massaia che prepara la cena, come ormai non fa quasi più nessuno e nessuna nel tennis delle sportellate a due mani, dove anche le donne come Serena superano regolarmente i 200 chilometri all'ora di velocità nel primo servizio. Velocità da Ferrari, mentre le nostre ancora servono a ritmi da Panda.
Giocare d'astuzia, sacrificarsi come faceva Mennea: così si fanno piangere network e uno stadio da 26mila tifosi. Ma noi italiani cresciuti a diete di «c'hanno arrubato la partita», di "buoni piazzamenti" ma anche di Germanie battute contro tutti i pronostici, noi sballottati fra insondabili agonie e imprevedibili estasi sappiamo che è soltanto nella voragine degli "odds", delle probabilità impossibili, che si accuccia la speranza di farcela. L'aggettivo più micidiale, per noi, è "favorito", garanzia eterna di schianti, che solletica la sbruffonaggine, mentre nella condizione di non avere niente da perdere, di essere considerati sconfitti in partenza, inetti, inadeguati, c'è l'ipotesi di farcela.
E se Matteo Renzi ha voluto sfidare i prevedibili venti contrari di polemiche e di accuse per il suo viaggio lampo a Queens e assistere alla finale, lo ha fatto, spero, perchè, oltre al desiderio di pavoneggiarsi con le piume di una vittoria italiana sicura, la finale di ieri è l'essenza di quello che l'Italia può e sa fare meglio, se ci riesce. Giocare d'astuzia, come le due pugliesi, non di forza e prepotenza, che non possiede, come l'Italia di Bearzot o quella di Lippi in Germania o di sacrificio come - guarda la coincidenza - un altro pugliese, Pietro Mennea.
Usare, come ha fatto Roberta Vinci, la potenza, la massa fisica dell'avversario contro di lui, per sbilanciarlo e farlo cadere, come nel Sumo giapponese, come Mohammed Ali, che frustrava e sconfiggeva i più grossi di lui. È un'Italia che dovrebbe imparare a fidarsi di più, e meglio, delle donne, non da vetrina e da talk show, ma da sudore, preparazione, volontà e fatica,come la Vinci che ha riassunto la sua strategia, nel «tenere la palla in campo e poi correre, correre, correre».
Dispiace che una delle due "Little Italians" abbia dovuto per forza perdere, ma la vecchia, cinica battuta di Giovanni Agnelli, sul «secondo che è soltanto il primo degli sconfitti» questa volta non si applica. Hanno vinto tutte e due e fatto qualcosa che non si ripeterà mai più. Le abbiamo guardate, come aveva chiesto Roberta e sono state proprio brave. CAZZO
Vittorio Zucconi